Un hashtag non è come un messaggio nel marketing, nei media, o nella politica, dove chi lo crea pensa anche di poterlo controllare. Non è come nei nomi nei domini, su Facebook o Google+, o come nei marchi di fabbrica, chiunque può usare un hashtag senza bisogno di un’autorizzazione o dover pagare. Non è come un dizionario con una sola definizione. Un hashtag è aperto e profondamente democratico. [...] La gente si raccoglie attorno a un hashtag. Lo saluta e lo diffonde, o l’ignora e lo lascia appassire. Gli infonde il proprio significato. Il suo creatore rapidamente e inevitabilmente ne perde il controllo.
L’hashtag, come molti sanno, nasce spontaneamente inventato dagli utenti di Twitter e non dai suoi sviluppatori, come modo per catalogare i tweet – il simbolo cancelletto (#) davanti a una frase-etichetta – così da poterli ritrovare, nel perpetuo flusso di informazioni che si stratificano sul proprio account, rendendoli in qualche modo rintracciabili e poter così, più semplicemente, ripescare il link o il pensiero scritto qualche tempo prima, o consultare tutti gli ultimi tweet legati a uno specifico argomento. Ma poi il suo utilizzo si è sempre più esteso: per sollecitare o seguire una discussione, per raccontare un evento, per promuovere un prodotto, per seguire un dibattito, un confronto elettorale, per lanciare una petizione e moltissimo altro ancora.
La definizione di Jarvis, a dire il vero, me l’ha fatta tornare in mente la lettura di un splendido elogio dell’hashtag #inpraiseofhashtag pubblicato sul New York Times e firmato da Julia Turner. Una bella lettura anche per un aspetto sicuramente sottovalutato sul quale l’articolo insiste: le potenzialità letterarie dell’hashtag, la sua capacità di orientare il senso di una frase e dei pensieri lanciati in rete. Gli esperti ancora non hanno prestato molta attenzione alla linguistica degli hashtag, sottolinea la Turner, così tutti gli studi tendono a concentrarsi solo sulla teoria delle Reti, sulla diffusione delle informazioni e le conseguenti tendenze. Eppure è (anche) uno straordinario strumento di scrittura:
L’hashtag, per l’utente che ne destreggia l’uso è uno strumento versatile, che può implementare in una miriade di modi linguisticamente complessi. Oltre a servire come metadati (#dichecosailtweetparla), l’hashtag dà a chi scrive la possibilità di commentare il suo stato emotivo, dando un taglio sarcastico al suo tweet, portandolo così verso un livello più alto di ironia, oppure regalare un lampo evocativo a un’immagine o può costruire metafore nell’impressionante economia dei tweet. È un dispositivo che permette ai migliori scrittori di operare in uno spazio compresso con più registri contemporaneamente. È il canto gutturale di Tuva di Internet.
Leggere l’elogio della Turner è salutare anche perché ci ricorda che, in un mondo (quello online certo, ma non solo) dove vige la tirannia dell’equazione più cliccato, più condiviso uguale migliore e più interessante, vale sempre la pena di sperimentare e ancora sperimentare per cercare nuove forme di espressione, senza paura di fallire.
D’altronde bisogna ricordare che anche molti contenuti diffusi nei social networks tramite hashtag di successo, quelli ampiamente condivisi in rete, che diventano essi stessi simbolo di eventi (ad esempio#tahrir o #jan25), hanno una persistenza molto relativa. Una ricerca dell’Università di Norfolk ci dice che circa il 30 per cento di quanto condividiamo nei media sociali è destinato ad andare perso. I ricercatori hanno analizzato diversi eventi di grande portata dal giugno 2009 e il marzo 2012. E il “corpo” più consistente della ricerca è stato quello dei tweet realizzati durante la primavera araba, (non a caso il report della ricerca si intitola Losing My Revolution), in particolare i contenuti condivisi attraverso hashtag utilizzati in quelle occasione (su Twitter ma anche attraverso piattaforme di content curation come Storify). Risultato: l’11 per cento del contenuto dei social media era scomparso in un anno e il 27 per cento entro i 2 anni.
Ma a dispetto di questa deperibilità però si fa comunque sempre più aggressivo e insistente l’uso dell’hashtag con finalità commerciali e di propaganda, e per questo non è affatto banale chiedersi oggi quale sia il suo potere, la sua capacità di attirare contenuti che si fanno racconto.
Soprattutto da quando non è più elemento esclusivo di una sola piattaforma, ma ha esteso il suo campo d’azione oltre Twitter, ad esempio Pinterest e in particolare Instagram (che giocherà probabilmente un ruolo sempre più importante per il potere sempre maggiore delle immagini in Rete e per un bacino utenti destinato ad ampliarsi sempre di più). In questo modo l’hashtag è diventato l’elemento che, molto più di altri, può aggregare elementi diversi di un racconto che si compone in rete – pezzo dopo pezzo – attorno a lui con immagini, video, brevi pensieri, informazioni, news.
Così indirizzare questo racconto verso il proprio punto di vista diventa fondamentale per presentare la propria verità. L’esempio eclatante e più recente è #PillarOfDefense l’hashtag lanciato sui media sociali dalle forze armate israeliane durante l’attacco militare a Gaza del 14 novembre scorso. Probabilmente il primo esempio di conflitto dove le forze armate hanno pianificato l’utilizzo dei social media per dare vita a una nuova forma pubblica della narrazione in tempo reale della guerra. Risulta chiaro che l’hashtag non si limita a comporre in modo neutro quella narrazione, ma a secondo di come viene “costruito” può orientarla e disporla in una direzione invece che in un’altra.
Photo: IDF CoS Lt. Gen. Benny Gantz & senior commanders in a situation assessment regarding Operation #PillarOfDefense http://t.co/PHdKRmqh—
IDF (@IDFSpokesperson) November 16, 2012
A #Palestinian kid holding his brother, after their parents were killed by #Israeli attacks in #Gaza. #GazaUnderAttack http://t.co/ARlqmeJZ—
Anonymous Press (@AnonymousPress) November 20, 2012
Poco dopo è stato lanciato l’hashtag #GazaUnderAttack (ed altri ancora non solo in lingua inglese come ad esempio #Gazzeateşaltında), che ha fornito il contro-racconto di quell’attacco. Tanto che qualcuno, come Jonathan Albrigt tra gli altri (in un ottimo pezzo che vi consiglio di leggere) ha parlato di “battaglia degli hashtag”:
Le “battaglie” degli hashtag sono una parte importante della disseminazione delle notizie, ma anche un’altrettanto importante parte della loro creazione e della loro manifestazione, che personifica la loro natura “digitale”, come il loro essere infinitamente replicabili, facilmente espandibili e – a differenza di un collegamento ipertestuale – capaci di sostenere siti semplicemente con l’aggiunta del carattere “#”.
"A real-time battle of hashtags and twitpics." – The Israeli/Palestinian conflict, waged via social media: nbcnews.to/SuS03R—
NBC News (@NBCNews) November 16, 2012
Torno quindi all’inizio: quanto possiamo ancora oggi continuare a pensare che la bellezza di un hashtag sta nella sua impossibilità di essere controllato? Quanto ancora è possibile definirlo “profondamente democratico”? E anche questi ultimi eventi ci dicono che davvero sembrerebbe totalmente svanita l’idea che “il suo creatore ne perde presto il controllo”.
A poco più di un anno da quando Jarvis lo ha scritto tutto sembra già essere cambiato. Ma forse non è così. La creatività, spesso sorprendente, che dalla Rete riesce comunque ad emergere conquistandosi un proprio spazio per azioni alternative, sembra in parte dare ancora ragione a chi vede nell’hashtag uno strumento felicemente incontrollabile. E probabilmente la speranza che possa ancora essere un elemento libero e privo di controllo sta nell’invito che Julia Turner pone a conclusione del suo articolo:
Al pari degli hashtag più popolari che raggiungono decine di migliaia di tweet, ce ne sono ancora molti utilizzati da uno soltanto. Sono questi gli hashtag che dobbiamo celebrare. I poeti e i burloni di Twitter sono ancora là fuori. La forma d’arte persiste. Non dobbiamo altro che avventurarci e andarlo a scoprile, sfruttandoli e perfezionandoli.
Fonti e approfondimenti:
#InPraiseOfTheHashtag (Julia Turner – New York Times)
How Many Resources Shared on Social Media Have Been Lost? arxiv.org/abs/1209.3026
Gli hashtag, come la poesia, sono di chi li usa. Note su #csxfactor (Augusto Valeriani sul suo blog FTM)