Fat City & All the Marbles
Quanto è inutile ripetere tutti i nomi e titoli che hanno reso grande la New Hollywood, tanto è necessario sottolineare come anche registi della vecchia guardia hanno saputo cogliere il clima dell’epoca e dire la loro, realizzando alcuni dei film più interessanti del periodo. Nello specifico parliamo di Fat City (1972) di John Huston e All the Marbles (1981, conosciuto anche come California Dolls) di Robert Aldrich.
Film amarissimo e senza speranza, Fat City (sceneggiato da Leon Gardner partendo dal suo racconto) è, senza troppi giri di parole, un capolavoro. A Stockton, California, si incrociano le strade di un ex pugile dal passato glorioso, di un giovane pugile dalle belle speranze e di un’alcolizzata all’ultimo stadio. Strade che non portano da nessuna parte, perché per loro non c’è alcun posto dove andare. Destini segnati ed esistenze solitarie, nient’altro. In Fat City sono l’incomunicabilità e l‘incapacità di rapportarsi con gli altri a causare la dolorosa solitudine dei personaggi.
Un film di rara tristezza e di un’onestà disarmante, coronato da un finale che non potrebbe essere più angosciante. Uno di quei momenti in cui da spettatore si rimane senza parole, grazie anche ad un tocco di classe tecnico di quelli memorabili.
Di incredibile impatto la prova degli attori. Stacy Keach (uno dei migliori attori degli anni ’70, alla pari dei più grandi; vedere The Gravy Train, Doc e The New Centurions per credere) regala un’interpretazione immensa e un Jeff Bridges poco più che ventenne lascia già presagire la futura grandezza, per non parlare di Susan Tyrrell, mai così brava. Huston dal canto suo, con Fat City (ed i seguenti The Life and Times of Judge Roy Bean e, soprattutto, The Man who would e King) attraversa il periodo più ispirato della sua carriera dai tempi d’oro con Bogart e si riconferma un grande autore. Una nota particolare per la fotografia di Conrad Hall, fatta di inquadrature e colori improntati a creare immagini fredde e taglienti memori di Edward Hopper, contribuendo così in maniera decisiva all’atmosfera tetra ed inquietante del film. Un’opera di quelle per cui aggettivi e superlativi non sono mai sufficienti.
Da inserire nel genere – tipicamente americano – dei film sportivi, All the Marbles investe buona parte della sua durata nelle relazioni tra i personaggi. Certo, gli scontri sul ring (molto realistici grazie alla consulenza di Mildred Burke, una famosa wrestler dei ’30 e ’40) coinvolgono lo spettatore e tecnicamente sono i momenti migliori del film, ma questo coinvolgimento è possibile soltanto perché ci importa dei personaggi. E se il film è soprattutto una commedia, non manca mai quell’amarezza di fondo, caratteristica di molto cinema del periodo. Ad Aldrich interessa soprattutto raccontare gli aspetti negativi dello sport. Una vita on the road, segnata da mille compromessi, relazioni dubbiose, una serie infinita di squallidi motel e ristoranti fast food, per arrivare alla conclusione che il proprio lavoro viene considerato, nel migliore dei casi, come una esibizione di carne femminile, nel peggiore come un freak show.
Anche se nel finale tutto va per il meglio, sappiamo che la mattina seguente poco cambia veramente per i protagonisti. Il cinema di Aldrich ci ha regalato molti uomini tutti di un pezzo e donne fuori controllo. In un certo senso, All the Marbles unisce entrambi gli aspetti. Oltre agli attori di cui sopra, troviamo nel cast anche un ottimo Burt Young nel ruolo dell’organizzatore viscido e il solito Richard Jaeckel (presenza pressoché fissa nei film del regista), che interpreta l’arbitro corrotto dello scontro finale. L’ultima regia di Aldrich dimostra per l’ennesima volta la sua volontà di affrontare anche le tematiche più bizzarre e rappresenta una onorevole chiusura di una grande carriera. Merita di essere recuperato.
Paolo Gilli