Swami Vivekananda (1863-1902) era un mistico indiano che dedicò la sua vita a promuovere il miglioramento delle condizioni spirituali e materiali dell’umanità. Gli indiani lo venerano come un santo ma fu anche un poeta, un filosofo e un grande pensatore. Questo suo breve elogio al silenzio costituisce un momento di riflessione che può confortarci in tempi così drammatici, confusi e di svolta come quelli che stiamo vivendo. Ho già tessuto le lodi del silenzio in un mio precedente post, in cui esaltavo la figura di Charlie Chaplin. Ma ritorno volentieri sul valore e la necessità di fare silenzio e insieme ascoltare il silenzio per ritrovare noi stessi.Ci siamo persi, è più che evidente. Ci siamo smarriti a causa di troppo rumore, del cambiamento delle coordinate spazio-tempo, del trionfo del relativismo, del crollo delle illusioni. La crisi economica che ci rende insicuri è solo la punta dell’iceberg. A mandarci in crisi è stata la parte sommersa, vale a dire il parossismo, cifra paradigmatica dei nostri tempi. Parossismo significa eccesso, culmine, esasperazione. Siamo arrivati alla massima intensità di un processo morboso e ne paghiamo le conseguenze. Di che cosa parlo? Del fatto che negli ultimi trent’anni abbiamo camminato baldanzosi ma con una benda a coprirci gli occhi su una via che ci ha condotti al default, al fallimento esistenziale. Abbiamo inseguito obiettivi effimeri a scapito di quelli durevoli, abbiamo rinnegato i sogni e gli ideali in nome del falso benessere materiale, abbiamo rinunciato alla nostra indipendenza e sovranità antropologica per delegare un sistema politico-sociale-culturale mostruoso a rappresentarci. L’orribile involuzione etico-sociologica del genere umano che ha avuto inizio alla fine degli anni Settanta ha un comune denominatore: il frastuono. Io che di anni ne ho cinquantasette, e perciò ho un ricordo nitido di com’era la vita ante quem, posso affermarlo con certezza: gli ultimi trent’anni sono stati caratterizzati dal volume troppo alto, dai suoni che confondono la coscienza, dalle parole a vuoto scagliate nell’etere come fossero schegge, dal putiferio che assorda la mente e la inciucchisce. Prima non era così. Si parlava anziché urlare e c’era una misura per tutte le cose, comprese le parole. Soprattutto il vaniloquio e il vituperio. La mia è una metafora, si intende. Non mi riferisco solo e certamente alla musica o ai toni del linguaggio. Il rumore no-limits è un gravame che il progresso ci ha imposto artatamente. Il rumore no-stop non ci permette di pensare e riposare, ci induce a seguire come pecore matte i consigli della regia, le mode, le tendenze, il gracchiare fraudolento dei cattivi maestri. Di questo pedissequo andamento oggi paghiamo il fio. Siamo stanchi, delusi, amareggiati, confusi e abbiamo voglia di chiudere gli occhi e soprattutto tapparci gli orecchi. Parla per te! – obietterà chi non è mai d’accordo con quello che dico e come lo dico. Certo, parlo per me e di me. Ma credo che molti la pensino nello stesso modo e oggi desiderino sopra ogni altra cosa il silenzio. Perché il silenzio è la medicina più efficace. Lo sanno bene quelli che trovano il tempo di meditare, di camminare in montagna, di passeggiare in un bosco o semplicemente di stare zitti per potere ascoltare la voce interiore. Le parole di Vivekananda sono attualissime. Ci invitano a compiere gesti stupendi mediante i quali possiamo ribellarci alla nostra attuale, misera condizione umana. Che significa sedersi ai bordi dell’aurora? Letteralmente vuol dire accogliere in silenzio il sorgere del sole e accorgersi che splende anche per noi e ci invita a non desistere. Da quanto tempo rinunciamo a godere della bellezza dell’alba? Da quanto tempo non assaporiamo il silenzio che ammanta le ore che precedono il risveglio del mondo? Dovremmo farlo spesso. In chiave allegorica significa altro: dobbiamo avere fiducia nel domani, nonostante tutto. Chi ha la fortuna di vivere in una località di mare dovrebbe approfittarne. Il silenzio, in quel caso, è ancora più bello e nutriente perché vedere il sole sorgere dalle acque è rigenerante. Dovremmo sederci ai bordi della notte, come suggerisce Vivekananda, e ammirare lo scintillio delle stelle. Anche in questo caso il silenzio è magico e terapeutico perché nel mostrarci la nostra finitezza ci indica la nostra grandezza. Siamo parte del tutto. Così come dovremmo sederci ai bordi di un corso d’acqua pura e cristallina e cogliere nel silenzio che ci circonda i suoni della natura, come il trillo di un usignolo, o semplicemente la musica del divenire che fluisce. Sono momenti semplici ma profondi. Sono antidoti ai telegiornali, alla verbosità truffaldina dei politici, ai discorsi inutili, al vuoto chiacchiericcio della gente nei locali pubblici, nei centri commerciali, sul treno e in ogni altro posto dove il rumore è insopportabile. Sì, dovremmo avere la forza di sederci. All’improvviso, ovunque, infischiandocene degli altri. Dovremmo sederci ai bordi del silenzio e una volta lì attendere di udire la voce di Dio. Non è difficile riuscirci perché Dio non ricorre alla connessioni esterne, non ha bisogno di megafoni o delle fibre ottiche. Dio è dentro di noi. Anzi, noi siamo Dio e tutto ciò che ci serve sapere è racchiuso in noi. Sedersi ai bordi del silenzio è l’unico modo per udire la voce interiore, la nostra divinità che ci parla. In un mondo caratterizzato da un’overdose di schiamazzi, fragori e rumori irritanti, ci serve fare e imporre silenzio. Ci serve fare un potente incantesimo. Per questa ragione non ho pubblicato nulla sul mio blog per undici giorni. Ho voluto fare silenzio in me e intorno a me. Anche per rendermi conto se qualcuno avrebbe notato la mia quiete. Ho avuto le risposte che mi aspettavo e mi vengono in mente queste bellissime parole di Isabel Allende: “Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte. La vita è puro rumore tra due insondabili silenzi”. Forse, l’unica magia che conta veramente, in questi tempi roboanti, è riportare il silenzio all’interno della parentesi fra la nascita e la morte. Facciamo un po’ di silenzio, per favore. Lo dico a tutti, soprattutto ai personaggi pubblici e ai tanti cialtroni mediatici che approfittano della loro visibilità per spaccarci i timpani e non solo quelli. Un bel tacer non fu mai scritto, dicevano i miei nonni. E loro sapevano fare incantesimi.
Swami Vivekananda (1863-1902) era un mistico indiano che dedicò la sua vita a promuovere il miglioramento delle condizioni spirituali e materiali dell’umanità. Gli indiani lo venerano come un santo ma fu anche un poeta, un filosofo e un grande pensatore. Questo suo breve elogio al silenzio costituisce un momento di riflessione che può confortarci in tempi così drammatici, confusi e di svolta come quelli che stiamo vivendo. Ho già tessuto le lodi del silenzio in un mio precedente post, in cui esaltavo la figura di Charlie Chaplin. Ma ritorno volentieri sul valore e la necessità di fare silenzio e insieme ascoltare il silenzio per ritrovare noi stessi.Ci siamo persi, è più che evidente. Ci siamo smarriti a causa di troppo rumore, del cambiamento delle coordinate spazio-tempo, del trionfo del relativismo, del crollo delle illusioni. La crisi economica che ci rende insicuri è solo la punta dell’iceberg. A mandarci in crisi è stata la parte sommersa, vale a dire il parossismo, cifra paradigmatica dei nostri tempi. Parossismo significa eccesso, culmine, esasperazione. Siamo arrivati alla massima intensità di un processo morboso e ne paghiamo le conseguenze. Di che cosa parlo? Del fatto che negli ultimi trent’anni abbiamo camminato baldanzosi ma con una benda a coprirci gli occhi su una via che ci ha condotti al default, al fallimento esistenziale. Abbiamo inseguito obiettivi effimeri a scapito di quelli durevoli, abbiamo rinnegato i sogni e gli ideali in nome del falso benessere materiale, abbiamo rinunciato alla nostra indipendenza e sovranità antropologica per delegare un sistema politico-sociale-culturale mostruoso a rappresentarci. L’orribile involuzione etico-sociologica del genere umano che ha avuto inizio alla fine degli anni Settanta ha un comune denominatore: il frastuono. Io che di anni ne ho cinquantasette, e perciò ho un ricordo nitido di com’era la vita ante quem, posso affermarlo con certezza: gli ultimi trent’anni sono stati caratterizzati dal volume troppo alto, dai suoni che confondono la coscienza, dalle parole a vuoto scagliate nell’etere come fossero schegge, dal putiferio che assorda la mente e la inciucchisce. Prima non era così. Si parlava anziché urlare e c’era una misura per tutte le cose, comprese le parole. Soprattutto il vaniloquio e il vituperio. La mia è una metafora, si intende. Non mi riferisco solo e certamente alla musica o ai toni del linguaggio. Il rumore no-limits è un gravame che il progresso ci ha imposto artatamente. Il rumore no-stop non ci permette di pensare e riposare, ci induce a seguire come pecore matte i consigli della regia, le mode, le tendenze, il gracchiare fraudolento dei cattivi maestri. Di questo pedissequo andamento oggi paghiamo il fio. Siamo stanchi, delusi, amareggiati, confusi e abbiamo voglia di chiudere gli occhi e soprattutto tapparci gli orecchi. Parla per te! – obietterà chi non è mai d’accordo con quello che dico e come lo dico. Certo, parlo per me e di me. Ma credo che molti la pensino nello stesso modo e oggi desiderino sopra ogni altra cosa il silenzio. Perché il silenzio è la medicina più efficace. Lo sanno bene quelli che trovano il tempo di meditare, di camminare in montagna, di passeggiare in un bosco o semplicemente di stare zitti per potere ascoltare la voce interiore. Le parole di Vivekananda sono attualissime. Ci invitano a compiere gesti stupendi mediante i quali possiamo ribellarci alla nostra attuale, misera condizione umana. Che significa sedersi ai bordi dell’aurora? Letteralmente vuol dire accogliere in silenzio il sorgere del sole e accorgersi che splende anche per noi e ci invita a non desistere. Da quanto tempo rinunciamo a godere della bellezza dell’alba? Da quanto tempo non assaporiamo il silenzio che ammanta le ore che precedono il risveglio del mondo? Dovremmo farlo spesso. In chiave allegorica significa altro: dobbiamo avere fiducia nel domani, nonostante tutto. Chi ha la fortuna di vivere in una località di mare dovrebbe approfittarne. Il silenzio, in quel caso, è ancora più bello e nutriente perché vedere il sole sorgere dalle acque è rigenerante. Dovremmo sederci ai bordi della notte, come suggerisce Vivekananda, e ammirare lo scintillio delle stelle. Anche in questo caso il silenzio è magico e terapeutico perché nel mostrarci la nostra finitezza ci indica la nostra grandezza. Siamo parte del tutto. Così come dovremmo sederci ai bordi di un corso d’acqua pura e cristallina e cogliere nel silenzio che ci circonda i suoni della natura, come il trillo di un usignolo, o semplicemente la musica del divenire che fluisce. Sono momenti semplici ma profondi. Sono antidoti ai telegiornali, alla verbosità truffaldina dei politici, ai discorsi inutili, al vuoto chiacchiericcio della gente nei locali pubblici, nei centri commerciali, sul treno e in ogni altro posto dove il rumore è insopportabile. Sì, dovremmo avere la forza di sederci. All’improvviso, ovunque, infischiandocene degli altri. Dovremmo sederci ai bordi del silenzio e una volta lì attendere di udire la voce di Dio. Non è difficile riuscirci perché Dio non ricorre alla connessioni esterne, non ha bisogno di megafoni o delle fibre ottiche. Dio è dentro di noi. Anzi, noi siamo Dio e tutto ciò che ci serve sapere è racchiuso in noi. Sedersi ai bordi del silenzio è l’unico modo per udire la voce interiore, la nostra divinità che ci parla. In un mondo caratterizzato da un’overdose di schiamazzi, fragori e rumori irritanti, ci serve fare e imporre silenzio. Ci serve fare un potente incantesimo. Per questa ragione non ho pubblicato nulla sul mio blog per undici giorni. Ho voluto fare silenzio in me e intorno a me. Anche per rendermi conto se qualcuno avrebbe notato la mia quiete. Ho avuto le risposte che mi aspettavo e mi vengono in mente queste bellissime parole di Isabel Allende: “Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte. La vita è puro rumore tra due insondabili silenzi”. Forse, l’unica magia che conta veramente, in questi tempi roboanti, è riportare il silenzio all’interno della parentesi fra la nascita e la morte. Facciamo un po’ di silenzio, per favore. Lo dico a tutti, soprattutto ai personaggi pubblici e ai tanti cialtroni mediatici che approfittano della loro visibilità per spaccarci i timpani e non solo quelli. Un bel tacer non fu mai scritto, dicevano i miei nonni. E loro sapevano fare incantesimi.
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