Parlando di federalismo si pensa subito alla questione delle Regioni, alle condizioni che le rendono autonome, ancorché legate da precisi vincoli costituzionali a un’entità centrale.
Il Titolo V della nostra Costituzione è stato oggetto di un ampio processo di riforma, svoltosi mediante l’approvazione della legge costituzionale n. 3/2001.
La modifica effettuata afferma il concetto di federalismo e cambia la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, riconoscendo a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni (art.19) autonomia finanziaria di entrata e di spesa. Si introduce così un presidio per le libertà di manovra dei singoli enti, per la re-distribuzione di competenze a più istituzioni, dunque si formalizza la difesa delle libertà individuali per raggiungere meglio l’unità tra diverse comunità.
La concezione di federalismo come ideologia, però, non esclude la considerazione che il nucleo ristretto del federalismo stesso si trovi comunque nel suo aspetto strutturale, vale a dire nello Stato, con tutto ciò che ne consegue in termini di effetti giuridici, istituzionali ed etici.
Il concetto politico è in sé molto buono e trova un’applicazione eccellente sia nel modello svizzero, sia in quello americano che, invece, per proporzioni e per numero di abitanti, non può essere certo paragonato al modello italiano, emerso di fatto con la crescente autonomia concessa alle Regioni.
Su questo tema, negli ultimi tempi, tramite web, tv e carta stampata, abbiamo appreso quanto siano poche le Regioni virtuose, troppe quelle che hanno sforato, in fatto di conti, diverse quelle in cui sono venuti alla luce corruzione e maneggi… Troppi.
Ogni giorno vengono fuori nuovi scandali sulla “malagestione” dei soldi pubblici da parte di Regioni, Province e Comuni. Il primo ( tra i recenti, beninteso) emerge il 12 Settembre. Il Corriere titola : “ Bmw coi soldi del Pdl. Indagato l’ex capogruppo Fiorito”.
Il 18 la notizia finisce in prima pagina: “Polverini, è catastrofe politica: nell’inchiesta i prestanome di Fiorito”.
Ci sono testate poi, come Il Sole 24Ore, che concretamente spiegano come più spese significhino più tasse per i cittadini.
Su La Repubblica si legge “ Fiorito: così si rubava alla Regione”. Arriva la valanga e Il 24 Settembre Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, si dimette.
Il 3 Ottobre Fiorito viene arrestato. Per effetto domino, le inchieste si trasferiscono anche al nord, coinvolgono uomini di altri partiti. Il peggio arriva il 10, quando viene arrestato anche l’assessore Zambetti. Per lui l’accusa è quella di aver elargito soldi alla ’ndrangheta, per ottenere in cambio voti e preferenze alle elezioni. Formigoni azzera la giunta lombarda.
A questo punto il Governo propone un decreto per ridurre i poteri delle Regioni e metterne sotto controllo le spese, cambiando la Costituzione.
Gli scandali travolgono tutto e tutti. Ecco perché, l’11 Ottobre, il Presidente della Repubblica, Napolitano, chiede di mettere fine agli abusi di denaro pubblico, senza per questo liquidare le Regioni, con ovvio richiamo al decreto di Monti. In effetti non sono mancate le critiche nei confronti del provvedimento messo a punto da Palazzo Chigi, reo di essere espressione di inclinazioni centraliste e sigillo della rivincita di uno Stato prefettizio.
Ad oggi però l’esperienza politica nata nel 1970, proseguita con il decentramento amministrativo degli anni Novanta e coronata dalla riforma costituzionale del Titolo V nel 2001, ha fallito nei suoi obiettivi. La classe dirigente locale del resto si è rivelata del tutto inadeguata al progetto ambizioso di una Repubblica delle autonomie.
Ma basta questo per condannare, con l’ondata degli scandali che stanno investendo le Regioni, il valore del messaggio federalista?
Nell’Italia di oggi hanno ancora senso e attualità le ragioni dell’autonomismo?
Al di là della teoria politica, la questione del federalismo fallito ci porta a riflettere sulla ben più cogente questione della corruzione. Questa piaga ha assunto dimensioni enormi soprattutto dopo la caduta delle ideologie. Si corrompeva anche negli anni di scontro tra modelli democratici e socialisti, però non si era mai arrivati a certi livelli.
In Italia, “la pentola a pressione della corruzione” rischia davvero di esplodere. Come si tocca un settore viene fuori il peggio del peggio. E questo in tutta la Nazione, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per il Lazio.
Certo, è ormai noto il fatto che le tangenti e i voti di scambio siano stati per anni serbatoio di diversi partiti.
Ed è altrettanto evidente che, se una volta i corruttori e i ladri si adoperavano per il loro partito, oggi lo fanno soprattutto per il proprio tornaconto personale.
Così, nei vent’anni successivi al caso Tangentopoli, che pure avrebbe dovuto segnare l’inizo di un’inversione radicale, si è invece instaurato il modello dell’avidità, del tutto per tutto pur di mantenere la poltrona. Un modello distorto che ha inquinato la classe dirigente e la società civile.
Non è più accettabile che la grande criminalità condizioni la vita politica e pubblica.
Non è possibile che ancora oggi si entri in Parlamento o nelle amministrazioni regionali e comunali grazie a raccomandazioni scambiate con favori, denari o peggio ancora grazie a un pacchetto di voti delle mafie.
Al netto delle implicazioni di carattere giudiziario, al netto delle suggestioni complottistiche, sarebbe opportuno che qualcuno ci mostrasse, per esempio, se esiste un nesso di causa-effetto tra la presunta trattativa del 1992 e il particolare momento politico che stiamo vivendo.
Vent’anni di storia. E’ stato proprio con quell’accordo, se c’è stato, che è cominciata in maniera non più occasionale, bensì scientifica, la deforestazione della nostra etica pubblica?