Da nippofilo mi duole ammettere che i due film migliori visti a Udine quest’anno sono entrambi di provenienza cinese. Uno è il nuovo lavoro di Lu Chuan, autore di quel capolavoro passato al FEFF di The City of Life and Death (se ricordate lo avevo messo al primo posto nella mia top ten orientale del 2010, ed è uno di quei film che escono ogni 4-5 anni), l’altro è un sorprendente dramma-gangster noir di un regista quasi esordiente.
The Last Supper di LU CHUAN
Wang de sheng yan, 2012, Cina, 116 min.
voto: ★★★/4
Lu Chuan si conferma regista di razza purissima, confezionando un dramma in costume sfarzoso ma intimista che presenta non poche analogie col Kurosawa shakespeariano di Ran e Il trono di sangue. Poco interessato alle battaglie epiche (poche le scene d’azione, ma ben gestite), Lu si concentra sulla figura del primo imperatore Han, Liu Bang, di estrazione contadina, che prima riceve aiuto e si allea col nobile Yu e poi lo tradisce impossessandosi del palazzo imperiale. La narrazione alterna gli ultimi giorni dell’imperatore, ossessionato dai fantasmi dei nemici (e amici) uccisi e perseguitato dai sensi di colpa, alle vicende che hanno portato alla sua presa del potere. Il regista si concentra sulla costruzione dei tre personaggi principali e sull’approfondimento dei rapporti che si sviluppano tra di loro, guidati da fiducia e onore prima, per mutarsi in sospetto e tradimento poi. Notevole è però anche la figura della prima moglie di Liu, interpretata dalla moglie del regista opportunamente invecchiata, che sembra ricoprire non troppo casualmente un ruolo simile a quello di Lady Macbeth. La ricostruzione storica impeccabile è impreziosita ulteriormente da una fotografia molto luminosa nelle scene all’aperto e scura, quasi a lume di candela, negli spazi chiusi del Palazzo, rendendone bene l’atmosfera opprimente. La storia prende spunto dall’episodio del “banchetto alla Porta Hong”, vero turning point nella vicenda dei protagonisti e una delle scene più riuscite del film, nella quale la tensione è altissima e lo spettatore rimane a lungo col fiato sospeso grazie ad un uso intelligente di ralenti e primi piani di volti e particolari. Se da un lato, come spiegato dallo stesso regista, la storia vuole essere una critica alla classe governativa attuale, dall’altro tocca corde universali sui comportamenti e gli istinti che fatalmente muovono coloro che hanno il potere. Un film dal ritmo non agilissimo, ma in grado di coinvolgere emotivamente grazie ad una notevole cura dell’immagine, nel quale fa da corollario, con le ripetute scene nella “biblioteca” imperiale, un interessante discorso sulla Storia e la relatività dei punti di vista di chi la scrive.
Lethal Hostage di CHENG ER
Bian jing feng yun, 2012, Cina, 109 min.
voto: ★★★/4
La sorpresa più bella della mia tre giorni friuliana è questo particolarissimo prodotto del giovane Cheng Er che alla sua seconda regia dimostra uno stile personale e idee molto chiare su come veicolare i suoi messaggi al pubblico. Una sorta di thriller-gangster dalle tonalità noir, diviso in quattro capitoli nei quali si alternano due piani temporali che progressivamente svelano i rapporti tra i personaggi e le loro motivazioni. Uno scambio di droga finisce male per l’intervento della polizia, il boss muore e il suo braccio destro si garantisce la fuga prendendo in ostaggio una bambina. Il padre di quest’ultima viene arrestato nel tentativo di liberarla, lasciandola così crescere in compagnia del bandito, del quale, una volta grande, si innamorerà. I due vivono in Birmania, dove ha sede il “cartello” del quale nel frattempo è diventato capo l’uomo, ma non tutto fila liscio e la coppia tenta di uscire definitivamente dal giro. Alla loro storia si alterna e intreccia quella di una giovane, del fratello poliziotto e di un commerciante di droga (ottime le scene dalle tonalità quasi horror dedicate a quest’ultimo). Il ritmo assolutamente ellittico della narrazione inizialmente disorienta, ma si rivela col passare dei minuti una scelta vincente che ben si amalgama col tono generale del film, il quale riesce a creare ottime atmosfere vicine ai territori del noir con dialoghi ridotti all’osso. Classica dimostrazione di come le parole non servano necessariamente per costruire una storia coinvolgente (nonostante una sceneggiatura non impeccabile) e personaggi con cui empatizzare, grazie anche all’interpretazione fatta tutta di sguardi di Ni Dahong, nel ruolo del criminale romantico. Lethal Hostage riesce a toccare nel profondo soprattutto nel finale dal retrogusto fatalista, rivelandosi agli spettatori come un prodotto particolare, un piccolo gioiellino, che permette a Cheng Er di entrare nel novero dei giovani registi da tenere d’occhio.
Sha sheng, Cina/Taiwan, 2012, 108 min.
voto: ★½/4
Conosciuto (cinematograficamente) a Venezia dove presentò nel 2009 Cow, Guan Hu si conferma regista difficilmente inquadrabile, in grado di produrre oggetti non identificati di cui però, allora come oggi, sfugge francamente il senso. Nel Villaggio della Longevità tutti vivono in accordo con le leggi e le superstizioni del posto; uno stile di vita che garantisce loro di arrivare ad età eccezionali. In questa comunità compatta e apparentemente idilliaca c’è però una pecora nera, un outlaw anarchico interpretato da Huang Bo (visto a Udine anche in Lost in Thailand) che gli abitanti del villaggio cercano in tutti i modi di cacciare (non potendolo uccidere). La sceneggiatura però è scomposta e confusionaria e sembra non andare a parare da nessuna parte: le vicende del protagonista si succedono senza apparente senso logico e anche la cornice della storia, con il medico giunto sul posto a vicenda conclusa, non ha molto diritto di cittadinanza, dato che la componente investigativa è diluita e lasciata più volte per strada e sembra messa lì solo per poter sfoggiare in cartellone un attore di richiamo come Simon Yam. Nonostante il regista non lesini trovate tecniche, usando steady cam in soggettiva e riprese a volo d’uccello sul villaggio per far entrare il pubblico in sintonia con il protagonista, la noia arriva molto presto e le suddette trovato finiscono con l’avere più che altro un effetto fastidioso. Quando nel finale ci si arrende al trovare un’utilità alla pellicola, ecco che il regista cala le sue carte, puntando sulla commozione e svelando il compiersi della parabola di un uomo che agisce liberamente e fuori dagli schemi e che per questo non è accettato da una comunità dove l’individuo ha un potere relativo e deve seguire pedissequamente le regole precostituite se vuole vivere felice e a lungo. Quanto rumore per nulla!
EDA