Femminismo fake per donne in carriera

Da Femminileplurale

“Se il massimo che può raggiungere il femminismo moderno è la liberazione personale per un pugno di privilegiate nel quadro di un mercato del lavoro pensato da e per i  maschi  ricchi, allora possiamo anche tornare in cucina”  

(Laurie Penny)

Laurie Lipton, “On”

Anne-Marie Slaughter ha pubblicato su The Atlantic un articolo dal titolo Why Women can’t still have it all, che Internazionale di questa settimana pubblica con il titolo La scelta obbligata delle donne. Nell’articolo, prendendo spunto dalla sua scelta personale di abbandonare un incarico prestigioso per dedicare maggior tempo ai figli adolescenti, l’autrice spiega come per le donne sia ancora difficile quello che il dibattito statunitense chiama “avere tutto”, ovvero perfetta gestione della famiglia + lavoro di prestigio. Ora al di la del fatto che, come nota Laurie Penny in un articolo di risposta (pubblicato sempre da Internazionale), quella rappresentata dalla Slaughter è una situazione che coinvolge un campione limitato e privilegiato di donne, (quelle che tentano di sfondare il cosiddetto “tetto di cristallo”), sembra che l’autrice non riesca a cogliere il vero nodo problematico della questione relativa alla conciliazione.

Un problema preliminare: secondo la Salugheter il femminismo anni ’70 si prefissava come obbiettivo fondamentale quello che le donne “avessero tutto” ovvero lavoro e famiglia. Credo che il femminismo volesse qualcosina di più: il femminismo combatteva per modificare la società patriarcale che vuole le donne relegate al ruolo di cura ( a casa con i bambini) e combatteva per la possibilità che una donna fosse libera (come un uomo) di scegliere della propria vita.

Dopo le battaglie degli anni ’70 in cui si sono affermate alcune libertà abbastanza specifiche (tutte in qualche modo riportabili a provvedimenti di legge) il femminismo sembra essersi in qualche modo arrestato nella sua richiesta di uguaglianza a tutti i livelli. La società del tempo (non molto diversa da quella di oggi perchè ancora fortemente maschilista e patriarcale) ha recepito dal movimento femminista quelle rivendicazioni più innocue e che ha, in un meccanismo che fagocita e superficializza tutto, fatto diventare “vulgata” femminista un pensiero distorto che la Slaughter ritiene femminista ma che è ben lungi dall’esserlo. Affermare che il femminismo indica alle donne di dover “avere tutto”, proponendo l’idea che una donna per “avere successo” debba essere una speice di supereroina dotata di superpoteri (tipo il magico dono del multitasking) per mezzo dei quali gestire casa e lavoro perfettamente, prendersi interamente a carico del lavoro di cura in famiglia e andare al lavoro ed essere superproduttiva, non è femminismo. È capitalismo in quella particolare accezione che ti fa pensare che se non sei produttivo sei un rifiuto della società, che se non dai il sangue per l’azienda per cui lavori non vali nulla.

Di questo la Slaughter sembra non essere minimamente consapevole. Non immagina che magari invece di chiedere alle donne di diventare “super”, sia meglio combattere per una società più equa in cui il lavoro di cura sia ridiviso tra entrambi i coniugi e in cui, magari, per i padri occuparsi dei figli possa diventare un piacere.

No, lei afferma: “Dovreste poter avere una famiglia se lo volete e allo stesso tempo raggiungere gli obiettivi professionali che desiderate. Se più donne riuscissero a conciliare le due cose, più donne raggiungerebbero posizioni dirigenziali. E se più donne occupassero posizioni dirigenziali, potrebbero fare in modo che per altre donne sia più facile lavorare”. Leadership e conciliazione, produttivismo e capitalismo, è questo l’importante.

Direttamente collegato con questo, c’è un altro problema. L’autrice riconosce di aver abbandonato un lavoro prestigioso presso il dipartimento di stato per stare al fianco del figlio adolescente un po’ turbolento, sebbene il marito fosse molto presente nella vita familiare. Stereotipo: la madre come colei che deve risolvere tutti i problemi, perchè è l’unica che sa come risolverli veramente.  Sminuendo in questo modo il ruolo del padre che, alla fine, pur con tutti gli sforzi, non è bravo quanto la mamma.

Inoltre, a partire dalla sua esperienza personale l’autrice ritiene che una madre, a differenza di un padre, sia naturalmente portata al ruolo di cura. Bisognerebbe rispolverare i lavori di Elisabeth Badinter in cui viene spiegato che il cosidetto istinto materno e l’idea di un presunto attaccamento naturale tra madre e figlio sia una costruzione culturale nata nell’Ottocento a fronte di una modificazione delle condizioni sociali, di vita e di lavoro. Non intendo mettere in dubbio l’amore di una madre verso i propri figli e quanto il legame con essi sia speciale, ma non può essere lo stesso per un padre? Perchè è necessario richiamarsi a presunti caratteri naturali materni (e quindi nel ragionamento di Slaughter femminili) per giustificare una scelta personale come stare al fianco dei propri figli?

Ultimo problema: non sembra contemplata altra possibilità se non quella di avere figli  come completamento e realizzazione della propria vita,  come se la genitorialità fosse il compimento dell’essere donna.  Citando Lisa Jackson, l’autrice afferma: “per essere una donna forte non devi rinunciare alle cose che ti definiscono in quanto donna” (bambini?).

Infine, se da un lato la Slaughter è molto brava a riconoscere gli stereotipi tipici legati ai genitori (non si occupano abbastanza del proprio lavoro perchè troppo assorbiti dal ruolo genitoriale) non sembra riconoscere, e anzi impiega, gli stereotipi relativi alle donne che non scelgono il percorso tradizionale che lei stessa ha scelto (lavoro/carriera, matrimonio, bambini) impiega una citazione di Lia Macko e Kerry Rubin: “Se non imparavamo a integrare la nostra vita personale, sociale e professionale, nel giro di cinque anni ci saremmmo trasformate nella donna arcigna seduta all’altro lato della scrivania di mogano che mette in dubbio l’etica del lavoro dei suoi dipendenti dopo la solita giornata di 12 ore, per poi tornarsene a casa e mangiare mu shu in un appartamento vuoto”.


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