Ferdinando Martini,  NeI paese di Bengodi

Da Paolorossi

Pietro Giordani lasciata nel luglio del 1824 Piacenza donde per suggerimento « dei più vili avanzi di corda » lo cacciava l’amante della svergognata vedova di Napoleone, riparava a Firenze; di là scriveva agli amici, datando le lettere : dal paradiso terrestre, e augurava agli amici stessi l’esilio affinché potessero godere di quel paradiso. Facevano a lui delizioso il soggiorno nella capitale della Toscana, oltre che « gli eccellenti e divini lavori delle arti », la benevolenza del Ministro Fossombroni di cui era giocoforza « innamorarsi», la compagnia di Gino Capponi « vero mostro, unico nella razza dei signori », la dimestichezza con « uomini bravi e donne amabili ; il principe buono, il governo buono, la moltitudine di uomini buoni ».

Gli amici preferirono probabilmente rimanersene a casa loro studiandosi di non cadere negli artigli delle polizie regie papali o ducali, ma non per ciò mancarono forestieri a Firenze; che là non soltanto esuli in cerca di tollerato rifugio, ma convenivano, e per ragioni che il Giordani non disse, cittadini d’ogni condizione e d’ogni parte d’Italia, anzi d’Europa.

Egli costretto dagli organi infelicissimi a ogni maniera piuttosto di astinenze che di frugalità; contento per l’abitare « ad una cameretta con suppellettile povera », egli, il Giordani, non avvertì o non curò quanto v’era di singolare in Firenze e in tutta la Toscana, singolare anche più che la mitezza del governo e la bontà della popolazione: e, cioè, la facilità del vivere, tale da crederla oggi incredibile ; che vi parve fatto realtà quel paese di Bengodi, dove la fantasia popolare immaginò che le vigne si legassero con le salsicce.

Firenze – Borgognissanti

Giuseppe La Farina manda al padre nel settembre del 1837 : « Eccomi finalmente nella mia nuova abitazione. È questa in via Borgognissanti, una delle più belle e centrali strade di Firenze. Ci ho una camera da letto e un salotto da ricevere mobiliati con tappeti, specchi, stufa di bronzo, ecc. Pago cinquanta lire al mese, oltre sette lire a una donna di servizio che me le pulisce, mi serve a tavola stando in casa dalle otto della mattina fino a dopo le tre. ora del mio pranzo.

Pago inoltre alla padrona di casa altri tre paoli e mezzo al giorno ed essa mi fornisce un pranzo composto di una zuppa in ottimo brodo, un lesso, un eccellente arrosto o fritto, un piatto di verdura, uno di parmigiano ed un altro di frutta .

La lira toscana equivaleva a ottantaquattro centesimi di moneta decimale, il paolo a cinquantasei. Il computo è presto fatto, e presto il ragguaglio. Le stanze lire italiane 42; la serva 5,88, il pranzo 1,96 al giorno e per trenta giorm 58,80 ; così, alloggiato in stanze signorili in una delle più belle strade della città, puntualmente servito, largamente nutrito, il La Farina nel 1837 spendeva al mese in Firenze, per tutta questa grazia di Dio, centosei delle nostre lire.

Così a Firenze ; in provincia, e s’ intende, anche meno. Il Leopardi al Vieusseux nel febbraio del ’38: «Quanto alla pensione vi dirò ch’io qui in Pisa ho: 1°  una camera con tenue biancheria da letto e da tavola, 2° pranzo in camera all’ora che mi piace, consistente in zuppa, tre piatti, pane e acqua (non frutta né vino), 3° colazione consistente in caffè e cioccolata con tre buoni biscotti, 4° imbiancatura e stiratura, 5° fuoco nel caldano tutto il giorno e fuoco la sera nel letto: e tutto ciò mi costa undici monete al mese ».

Ossia (la moneta valeva dieci paoli) lire italiane 61,60!

Trenta e più anni dopo la dimora del Giordani, il paradiso terrestre non era più quello; vi si scontavano i peccali del ’48 e del ’49 e se non vi roteavano come nel biblico le fiammeggianti spade dei cherubini a custodire l’albero della vita, contro ai rei di quei peccati custodivano le porte della città il Landucci ministro e il Petri prefetto, dei quali il profugo piacentino non si sarebbe innamorato, come già del Fossombroni, di certo; ma. le condizioni economiche della Toscana si serbavano quali al tempo suo e per la facilità del vivere Firenze era un Eden ancora. Senza andare a mendicare testimonianze negli epistolari, posso asseverarlo e provarlo io medesimo.

Nel 1857 mi presentai all’esame di preparazione al baccellierato: corrispondeva su per giù alla nostra licenza liceale….

Un momento: al ricordo conviene preceda questa volta la confessione.

Uscito da una scuola privata dove tranne il latino bene, e l’italiano mediocremente, poco s’insegnava e quel poco assai male; in seguito scolare infrequente e disattento alle lezioni di fisica e filosofia nell’istituto dei Padri Scolopi, ero a quindici anni quanto può dirsi ignorantissimo. Già, prima che l’esperienza – scuola obbligatoria ma pur troppo non gratuita – mi apprendesse quanta verità si contenga nei versi del Tallemant des Réaux:

O le grand don de Dieu que d’aimer la lecture!

Avecque ce secours jamais le temps ne dure.

Io la lettura, la odiavo: essa che fu il continuo e il solo indisturbato godimento della mia vita. Salvo i libri di scuola, le commedie del Goldoni, le Mille e una notte,  la Storia di Napoleone del Norvins, la Capanna dello Zio Tom e qualche novella francese (che il francese insegnatomi da mia madre imparai prestissimo e già da bambino lo ciangottavo) ; salvo questi, dico, non rammento d’aver aperto prima dei quindici anni altri libri. Ne avevo bensì pubblicato uno con malaugurata precocità in quello istesso anno ’57, senza, ben inteso, darmi la cura di leggerlo intero: perchè (spieghi la contraddizione chi può) pur non amando i libri mi pungeva l’assillo di vedere impresso sopra un libro il mio nome. E pubblicai, come ho detto, una strenna, Il Giglio fiorentino, raccolta di scritti in prosa e in verso, messa insieme seccando da vicino i letterati fiorentini amici di mio padre, e da lontano Andrea Maffei, Giulio Carcano ed altri valentuomini il cui nome conoscevo, più che per altro, per sentito dire.

Di mio poche righe soltanto; poche, ma sufficienti ad accertare pareggiate in me la presunzione e l’asinità. Nutrito di così peregrina e soda erudizione, mi presentai dunque all’esame. Duravano tuttavia i vecchi più che secolari metodi e programmi. Si studiavano allora meno cose nelle scuole medie e se ne usciva più presto ; né altrimenti si spiega (per non citare che due casi soltanto) come Antonio Aldini e Giovan Battista Giorgini potessero l’uno a Bologna, l’altro a Pisa salire a diciotto anni sopra una cattedra universitaria.

Materia dunque di esame: l’italiano il latino la filosofia le matematiche; chi si proponesse di andare all’università sosterrebbe l’anno di poi l’esame di baccelliere: in quel primo niente greco, niente fisica, niente geografia, niente storia.

La storia, del rimanente, sia che i superiori avessero qualche argomento per vederla di mal occhio, sia per altre ragioni, s’insegnava molto alla lesta anche nel ginnasio e nel liceo governativo e chi voleva impararla bisognava la studiasse da sé. Nel privato istituto del Rellini onde uscivo, un de’ più

accreditati, notate bene, lo studio della storia consisteva nel mandare a memoria brevi capitoletti narranti, senz’alcun nesso fra loro, i fatti principali dei greci, dei romani, della repubblica fiorentina e del principato mediceo (la cosiddetta storia patria), capitoletti oggi imparati a pappagallo e dimenticati domani.

Firenze – Palazzo degli Uffizi in una foto tratta dal libro “Firenze” di Tarchiani Nello, 1878

E qui s’interpone un altro ricordo: se mi dilungo, pazienza. Ove queste pagine cadano sotto gli occhi di qualche alunno di ginnasio o di liceo non sarà male ei conosca come furono educati molti uomini della mia generazione; imagini quanta fatica abbiam fatto per imparare qualche cosa, quanta per dimenticare ciò che ci avevano male insegnato e consideri quanto sieno ingiuste le lagnanze delle scolaresche presenti.

Avevo una memoria pronta e capace: e sempre nelle provoche vincevo i compagni, mettendomi a mente gran numero di quei capitoletti e recitandoli precipitosamente senza sgarrare d’una virgola. Ottenni cosi negli esperimenti di una classe ginnasiale il primo premio: una medaglia d’argento appuntatami sul petto dalle mani stesse del professore; così dopo le battaglie di Austerlitz e di Wagram Napoleone agganciava egli medesimo la Legione d’onore sul petto dei suoi soldati.

Mia madre, lieta per quella medaglia forse più ch’ io non fossi, volle premiarmi anche lei: chiesi d’andare in carrozza alle Cascine. Non l’avessi mai fatto ! Era di domenica, i fiacres rari a quel tempo: convenne andare in via dell’Oriolo da certo Silli il più noto fra i noleggiatori di carrozze. In via dell’Oriolo aveva casa e studio Vincenzo Salvagnoli il più eloquente degli avvocati toscani del quale ho già detto come fossero mirabili la dottrina e l’ ingegno ; uscì di casa mentre stavano attaccando i cavalli, s’avvicinò a mia madre per salutarla e scortomi sul petto il disco luccicante e carezzandomi la guancia domandò come l’avessi ottenuto.

— Nella storia greca, risposi con certo tono orgogliosetto ; e fu quello che mi perde.

— Ah! benone! soggiunse sorridendo. E…. dimmi un poco, chi visse prima Pericle o Alcibiade ?

I nomi di que’ due signori me li ricordavo ; e con un po’ di agio avrei potuto ripescare ne’ cantucci della memoria e ripetere i capitoletti che li riguardavano, ma circa al vivere prima o dopo….

— Peri…, — arrischiai.

II Salvagnoli non mi lasciò finir la parola e scosse il capo, come avvertendomi dell’errore.

Se non questo, quell’altro: non erano che due, c’era poco da sbagliare : ripresi trionfante : — Ah! no…. è vero…. Alcibi…. Nuova interruzione, nuovo cenno negativo del capo.

Detti in un pianto dirotto: ma le lacrime non valsero a tergere l’ignoranza mia e, siamo giusti, non mia solamente.

M’avevano dato il premio nella storia greca e non sapevo che Pericle e Alcibiade furono contemporanei.

Torniamo all’esame. Il latino lo sapevo, nell’ italiano la sfangavo ed ero già autore di una commedia – Il Negligente – recitata l’anno innanzi da me e dai miei condiscepoli, nell’ Istituto Rellini. La filosofia era una esercitazione mnemonica : ventinove tesi rosminiane imparate a mente e alla lettera. Superate alla meglio o alla peggio le due prime prove, già sognavo percorsa agilmente tutta la via, quando Euclide e il suo lontano alunno Legendre me la sbarrarono.

Il professore Mangani, molto stimato matematico, m’interrogò con cinquanta domande ; scartabellò paziente il Legendre per propormi altrettanti problemi, l’uno via via più facile dell’altro a risolvere: tentò insomma di aiutarmi con ogni maniera di pietosi accorgimenti ; ma io o non rispondevo, o pare rispondessi con spropositi de’ più marchiani ! Ah ! lo odo, lo veggo ancora il buon professore, scoccato il quarto d’ora di rito, levare al cielo disperato le braccia e pronunziare la mia sentenza in questa forma mortificante, « Figliolo mio, col poco si va, ma col nulla è impossibile ».

Bisognò rassegnarsi alla riparazione, a un terzo esame più tardi e sempre col medesimo successo infelicissimo. Fu un dolore per mio padre quel vedermi ruzzolare di bocciatura in bocciatura e non riuscire a buscarmi licenza d’entrare all’università; fu un dolore; pure d’averlo cagionato non provo rimordimento. Non sempre si vince con la volontà la natura, né sempre si supplisce con lo sforzo diuturno a originali manchevolezze.

Nel 1813 il Cuvier e lo Sproni, rettore dell’Università di Pisa, incaricati dal governo napoleonico di certificare la condizione degli studi nel dipartimento dell’Arno, non trovarono nel Collegio Cicognini un solo alunno, capace di dimostrare che i tre angoli di un triangolo sono eguali a due angoli retti. Di Francesco Viète vissuto nel secolo XVII un biògrafo scrive: Jamais homme ne fui plus né aux mathématiques: di me è da dire l’opposto. Appena comparisce l’ a + b e spunta il p greco le mie facoltà intellettuali si affievoliscono.

Che farci ? convincersi con umiltà che la cellula algebrica madre natura non me l’ha favorita.

 Prepararsi alla riparazione significava rimettersi al telonio durante le vacanze, riprendere lo studio della matematica con un valente ripetitore. Fu pregato di scozzonarmi il prof. Merlo, che mi fu caro avere poi collega nell’Accademia della Crusca.

A mio padre forse già minacciato dal morbo che lo tormentò atrocemente e lo spense cinque anni dopo, i medici ordinarono campagna e riposo. Sebbene a malincuore (mia madre era morta nell’epidemia colerica di due anni innanzi), mi lasciò a Firenze con un vecchio e fedel servitore e mi fornì del danaro bastevole al mantenimento e a leciti passatempi.

E io potei sistemare bilancio e vita così : prima colazione al caffè Pruneti sull’angolo di via de’Benci: caffè-latte pane e burro: quattro crazie (28 cent.) , seconda colazione dal Lanini in via de’ Calzaioli: pane, carne, formaggio: cinque crazie (35 cent.) desinare Alla Lira da Orsanmichele : pane, vino, due piatti e frutta: una lira (84 cent.) secondo annunziava il titolo stesso della trattoria. Se non che l’oste concedeva più che non promettesse: chi s’impegnasse a desinare lì per un mese di seguito e pagasse anticipato non sborserebbe se non il valsente di ventotto pranzi, sì che il prezzo di ciascuno dei trenta ne era di qualche frazione ridotto.

Tutto sommato del peculio largitomi mi avanzavano tre francesconi al mese (16,80).

Firenze – Targa Teatro Borgognissanti

In un paese dove l’ottimo sigaro toscano si vendeva due quattrini (2 cent. ½) e perchè i Fiorentini sopportassero più tardi di pagarlo tre fu necessario mandar fuori dragoni e fantaccini, sciabole sguainate e baionette in canna ; dove al teatro de’ Solleciti in Borgognissanti, per mezzo paolo (28 cent.) non più Lorenzo Cannelli nella maschera di Stenterello che Luigi del Buono vi creò quasi un secolo innanzi, ma opera e ballo e nel ballo, La figlia del bandito, Sofia Fuoco celebratissima ; dove per un paolo (56 cent.) al Cocomero, ora la Compagnia Reale Sarda con Ernesto Rossi e Adelaide Ristori, ora la Compagnia Dondini con Tommaso Salvini e Clementina Cazzola, tre francesconi erano, per un ragazzo di quindici anni, la California.

Non fui mai più in così laute larghezze. Passeggiavo per la città seguito da un codazzo di compagni tutti bocciati come me e tutti a me stretti col vincolo della gratitudine…. e del debito.

Intesi allora ciò che fosse ricchezza e come savio lo erogarla in opere mecenatizie e con utile della propria coltura. Perché fu lì, in quella trattoria che, non dirò nacque in me l’amore delle lettere, ma si temperò alquanto la mia repugnanza alla lettura.

Vi lessi con piacere, talvolta con simulato piacere, i versi de’ poeti commensali, ai quali m’era permesso dalla munificenza paterna pagare con gesto rotschildiano di amichevole protezione il caffè.

( Ferdinando Martini, Nel paese di Bengodi, tratto da “Confessioni e ricordi (Firenze granducale) – R.Bemporad e Figlio, 1922 )


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :