Fernanda Ferraresso, MAREMARMO, LietoColle 2014
È un’introduzione che può sembrare strana ma che mi serve a contestualizzare la lettura di questi “canti” feroci, soprattutto nei passaggi di cronaca. È, infatti, questa feroce sensazione olfattiva ad accompagnare le persone in esodo quando giungono da qualche parte, ” ferro titanio / biancori che non sono l’alba / residui di forme odori / liberati dai campi di raccolta / dove stiamo stipati ammassati”…
L’esilio, dunque, condizione destinale declinata, tutte le volte, nell’incapacità dell’uomo a demistificare la necessità della tragedia, si porta dietro l’animalità dell’essere, cioè l’inadeguatezza infantile a sopravvivere. L’essere si percepisce attraverso il bagaglio di una sensorialità ridotta all’osso – pulirsi, fare il pane, coprirsi, assolvere ai bisogni primari -. La parola non si connota, paradossalmente, come l’espressione più immediata della declinazione dell’urlo, ma della necessità di una simbolizzazione concretissima. È questa consapevolezza, a me sembra, a distinguere un’opera di poesia da una, seppur nobilissima, di cronaca.
In “Maremarmo”, si introduce un tema antico come il mondo, immediatamente riconoscibile nel doppio tempo della cronaca e in quello del mito – se ne deduce, quindi, che il mito altro non è che un concentrarsi della cronaca in un tempo cristallizzato -
La carovana viaggia da tempo
brucia materia umana
nessuno ormai ricorda il giorno dell’inizio
ricordare significherebbe perdersi
si viaggia di giorno e di notte si ripete il passo
mentre altri migranti
ingrossano il corpo di quella nera serpe
corpo di genti diverse…
Canto, come si vede, che si apre alla condizione destinale, costringendola, nello stesso tempo, alla geografia del deserto, del cammino a piedi e della sosta precaria.
È evidente, poi, in una poesia del genere, la frequentazione necessaria di una gabbia tematica strettissima: la guerra e la conseguente violenza, la dispersione del nome, l’apparizione di figure mostruose, metaforiche, lo stupro, per esempio in una bellissima sequenza di canti brevi.
Non per ultimo il complesso significante strettamente connesso alla necessità di una forma capace di coniugare verso lungo – a me sembra di percepire la presenza di un esametro smembrato – ad un espressionismo in qualche modo incastrato alla dizione della tragedia, del racconto del corpo e delle sue stimmate.
del padre ucciso la memoria cancelliamo e la madre salda
nel suo occhio vitreo il pianto
per riempirlo fino all’orlo per non vedere
la sua pietra ferma lei stessa inconsapevole
sposa del padre e del figlio rosa
È sufficiente la citazione di questo brano a dimostrare come questo modo di intendere la parola abbia a che fare con una sorta di sfiduciata speranza nell’esistenza, “senza fondazione precaria la vita domina…”. Ché, ad intendere le famose parole del Cristo, “i poveri li avrete sempre”, se ne ricava una specie di immanentismo del dolore, rinnovato nelle pratiche del ri/nascere e morire, perché vita e morte possano proclamare i loro splendori.
Il senso di questa poesia, dunque, pur collocandosi nell’osservazione di una tragedia inestinguibile, è tutto nel movimento e nel furore, nella forza della parola che non accetta, non si placa ma smuove, come una vanga, le zolle dure. Metafora concreta per intendere la durezza del lavoro, la fatica del rifondare – almeno attraverso la forza della parola che non si sottomette, non soccombe – l’idea di un vigilare, di una vigilia.
Sebastiano Aglieco