24 marzo 2014 di Augusto Benemeglio
1.“Luna, luna, cce penzi?… ( Nicola G. De Donno)
“Pe’ campare te tocca pensare” è l’ultima silloge di poesie in vernacolo salentino di Fernanda Quarta. Sono versi satirici (Cogito/ergo…/raglio), ma che sanno anche d’albe fresche e risate a denti stretti, di prime interrogazioni, candore e privazioni. Talora il suo è un battere l’aria e i denti tra miseria e stenti dentro l’inchiostro della notte, (“faticava tantu e nu bitia/intru lu portafoju mai nenti”) con protagonisti uomini, animali, e Dio, un povero Cristo sbeffeggiato, torturato e crocifisso che entra – sempre – di diritto, nel tempo e nella storia, nella micro storia di un popolo, di un paese, entra nel cuore dell’uomo magari sotto forma di quel “vagnuncedddru miseru e strazzatu /ssettatu an terra,tuttu friddu stia,(che) se saziava cu’u fumu profumatu/ ca la patella magica spandia” de “ Le castagne”, e si fa paradigma della storia universale. Mai dimenticare questo profondo sentimento cristiano che nutre e fascia di sé tutte le poesie di Fernanda, anche queste satire un po’ politiche e sociali (il parlamento, il Governo, la sanità, la truffa, l’opportunismo, l’arrivismo, l’indifferenza), bozzetti di costume, favole moraleggianti di ascensione esopiana (Lu cecu e lu zoppu, Le furmiche, lu passaru e la cerasa, la cicale e la furmica), insomma vizi, pregi e difetti di gente comune che cammina per le strade, a capo chino ( “Ci tie ttumi la capu a faticare/ povero resti cu ‘e pezze ai pantaloni”),ma anche motivi elegiaci e d’orgoglio per la sua terra, il Salento, e la sua città elettiva (Lecce m’ha adottata!/ E’rimastu ‘u sorrisu della mia adolescenza/ in ogni via…”).
L’uomo d’oggi, lo sappiamo, vive di dubbi oscuri, senza nessuna certezza e ciò lo ritroviamo, in nuce, in tutta la poesia di Fernanda, che vive fra squisitezza e denuncia, tra evasione onirica e documento sociale. Potremmo dire che questa italica terra non è più una valle di lacrime, ma una valle di tasse, imposte, vessazioni fiscali di ogni tipo per far fronte a tutti i buchi neri, le voragini di debiti creati dagli sperperi, malversazioni e iniqui arricchimenti dei nostri governanti e dirigenti degli ultimi trent’anni almeno, e che davvero – se vuoi campare – “te tocca pensare”.
2. Il bisogno di dire la verità
Se c’è una cosa che ha sempre distinto Fernanda Quarta è la ricerca costante di un’etica, di un fatto morale, l’assidua, ostinata, appassionata ricerca della verità delle cose; e il bisogno di dire la verità, che fa parte del suo modo di essere, lo esprime al meglio nella poesia dialettale Il vernacolo rappresenta una maschera stilistica alla quale spesso affida la testimonianza di una realtà che è fatta di angosce, ansietà, ricerca d’identità ( questa è “l’età degli uomini vuoti”), di violenze e ingiustizie, ma la sua poesia cerca di restituirci quel poco che aiuta a vivere e che alla fine, in qualche modo, ci salva. La visione del mondo della subalternità, la memoria del comico e del carnevalesco, stimmate che il vernacolo reca impresse in sé, da farsa però si fa talora dramma : “l’unica alternativa che ci resta – mi scrive Fernanda – è quella di sorridere per non piangere sulle “tragiche” commedie attuali”. Non a caso usa un ossimoro e una lingua che diventa strumento formidabile di immediatezza espressiva, di una rivendicazione dell’autenticità, e anche il ritrovamento di un’identità perduta.
3. Da Squinzano a Racale
Fernanda Quarta, con le sue braccia di memoria forma un’arcata immensa di verità, attraverso l’arte della fuga nel passato, la navigazione tra “li scarfalettu”, “lu conzalimmure”, “la pumeta”, il suono della campana, che abbracciano e fasciano tutta la storia di questi ultimi sessant’anni della sua terra amata; l’arcata di un ponte che va da nord a Sud della penisola salentina, da Squinzano, -con il ciglio della serra di Monte d’Oro, lo stemma guerriero dell’aquila delle legioni romane e la silente chiesa di Santa Maria delle Cerrate, dispersa nella cieca campagna, nei pozzi della luna e nei fantasmi sonori della sua infanzia e prima giovinezza, – a Racale, nella valle di Taviano, città anch’essa d’origine romana, fondata da Eraclio, liberto di Augusto, con lo stemma della lupa che allatta i gemelli, il dolmen Ospina e la chiesa di Santa Maria del Paradiso, paese in cui ha trascorso tutto il resto della sua esistenza, insegnando l’Abc, l’alba e la prima interrogazione, l’amore e la rosa, il cielo e i colori di Dio, la “storiella antica” a generazioni di “vagnoni bbabbati, tutti attenti/(che) spettavane ansiosi ‘u lietu fine. Ci sono momenti di sospensione, recuperi della memoria infantile, spazi simbolici, condizione di indefinitezza tra il bianco e il nero, tra la vita e la morte, transiti di rondini in tragitto per la valle dei re, frammenti di memoria e di sogno legati al tema dell’infanzia, al tempo degli aquiloni ( La pumeta sta dondola lontana/a cu iddra trasporta tanti cori/ca battune te gioia vera e sana/felici, senza pretese né rancori/ Felicità te ddru sciochi spensierati!/ Senza pile, senza fili e istruzioni./ Cu l’occhi e l’anima allu Celi elevati/ forse nasciane sante aspirazioni), l’inquieto solcare le tenebre di un’anima caduta, le trombe spaesate che suonano una vita persa nelle contrade, il bisogno di testimoniare una macchia, una gravitas, un’offesa, tensione di un’attesa delle cose, ansia di orientamento, poesia come epifania di un senso imminente al quale guardano gli spaesati d’ogni tempo, che cercano di riempire le contrade che non sono mai state delle forme storiche della speranza. C’è chi lascia un poema /e chi non lascia niente/ perché è muto il tema /della vita, in tanta gente”
4. La meju professione
Che cos’è questa raccolta di poesie se non una sorta di vademecum della vita vissuta e da vivere ancora giorno per giorno? I riferimenti possono essere moltissimi, dai grandi dialettali salentini ai classici come Esopo e Fedro, fino a Trilussa. Ma una cosa è certa, Fernanda poteva usare solo il vernacolo, strumento unico in grado di rappresentare allo stato puro, senza bisogno di mediazioni, le esigenze del popolo, cogliere plasticamente quelle intuizioni fulminee di sociologia o politica spicciola che fanno clic sulla nostra quotidianità , in modo barocco, grottesco, satirico, burlesco, ma anche amaro, come ne “La meju professione”, che “ ete quiddra te drittu truffature,/ a ddrunca sia, tantu la prigione/ nun è chhiui na vergogna, anzi è ‘n’onore./ Generali, Ministri, Presidenti,/tutti se rranciane, alla faccia te li onesti/ ca pacane tasse e vivune te stenti,/ suntu na farsa li processi e li arresti!”
Roma, 21 marzo 2014, Augusto Benemeglio
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