Fernando Bandini, La ciupinara

Da Fabry2010

Una poesia in dialetto vicentino, una cantilena che sgomenta e confonde. Siamo assai lontani dalla tradizione poetica di temi lirico-naturalistici o da quelle di ordinate metafore. La talpa è la sonda che penetra nelle terre dei morti e delle cose del mondo di sotto, il suo scavare fruga e scompiglia i campi del lavoro e degli amori dei viventi, lei stessa una bizzarria cieca e folle della natura.

La ciupinara

Xe quando el cincibín dal cao celeste
va in volta par le siése
in serca de pomèle de l’otuno passà,

o ’l beca i buti
de l’albaro drío casa dove i fiori
∫a i se insogna de èssare sirese;

quando che liparéte
putèle se desmíssia
e piene de morbín le fa sitare
el basavéjo;

e vèrta qua xe un ventesèlo caldo
e sul monte na s-cianta de sisàra
che col sole la sbrissia ∫ó dai rami;

xe lóra che vien su da sototera
la ciupinara.

Nissuni sa da dove che la vegna:
xe ’l scuro che ghe insegna
da che parte girarse,

xe il silensio, che quasi
el fa pí gran bordelo
de quando che se vèr∫e un cadenasso.

E mi e ti la note de le Quatro
Tèmpora, ndando foramàn pai campi
soto na luna nóva ancora sbiava,
no se ghemo inacorti che rivava
la ciupinara.

Sentívimo e vedévimo qua torno
tanta note,
ma no quel’altra note a culo in su
che da morti ne spèta,

dove che éla ruma
e no la dorme mai,
ndando, orba, su l’usma
de bissóli e de bài,

mastegando par vèr∫arse
la strada scaje e stele,
scaje de veci teremoti e stele
deventà tochetini de carbon.

Tocà da quele sate
le sòpe le pí dure va in sfrasele,

sate fate a cuciaro
e gira de roèrso
come na mata che se gabia messo
i guanti col davanti par dadrío,

sate che le laóra
co síe déi e síe onge
(la sesta ghe vien fóra
dal déo co fa un falsín).

Spiriti de na note grama e nera
ghe ga cusío co le so guce fate
co i spini de le russe la palpièra,

e la xe sensa rece
parché la se le ga tute fruà
sevitando a ficare
el muso rento ’l duro de la tera.

El campo che frugnare
se sente te le coste
ghe xe vegnú ’l convulso,
el se impiéna de mútare e de frape,

vien fóra a l’aria cape
del tempo de Noè, l’osso de un pèrsego
magnà da me bisnono.

E che ànsemo, amore, che xe stà
cubiarse mi e ti
su quel tòco de prà
mòrbio de pissacani e galinèle,

che magón, che sangióto,
pensando in meso ai basi a le satèle
che ne scavava sóto!

(da Meridiano di Greenwich, Milano, Garzanti, 1998)

La talpa.

È quando la cinciarella dalla testa azzurra
vaga per le siepi
in cerca di bacche dell’autunno scorso,

o becca i germogli
dell’albero dietro casa dove i fiori
già sognano di essere ciliege;

quando viperette
bambine si risvegliano
e piene di allegria fan­no saettare
la lingua velenosa;

e qua primavera è un venticello caldo
e sul monte un po’ di brina gelata
che col sole scivola giù dai rami;

è allora che risale da sottoterra
la talpa.

Nessuno sa da dove giunga:
è il buio che le insegna
da che parte dirigersi,

è il silenzio che quasi
fa un rumore più grande
di quando si apre un catenaccio.

E io e te la notte delle Quattro
Tèmpora(*) andan­do lontano per i campi
sotto una luna nuova ancora sbiadita,
non ci siamo accorti che arrivava
la talpa.

Sentivamo e vedevamo qua attorno
tanta notte,
ma non quell’altra notte capovolta
che da morti ci aspetta,

dove lei rùfola
e non dorme mai
andando a fiuto, cieca, sulla traccia
di vermi e d’insetti,

masticando per aprirsi
la strada schegge e stelle,
schegge di vecchi terremoti e stelle
diventate pezzetti di carbone.

Attaccate da quelle zampe
le zolle più dure vanno in frantumi,

zampe fatte a cucchiaio
e girate per rovescio
come una pazza che abbia messo
i guanti col davanti per dietro,

zampe che lavorano
con sei dita e sei unghie
(la sesta le spunta
dal dito come un falcetto).

Spiriti di una not­te grama e nera
le hanno cucito coi loro aghi fatti
con le spine dei rovi la palpebra,

ed è senza orecchie
perché se le è tutte con­sumate
continuando a ficcare
il muso dentro il duro della terra.

Il campo che frugare
si sente nelle costole
si è tutto agitato,
si riempie di monticelli e di grinze,

escono all’aria conchiglie
del tempo di Noè, il nòcciolo di una pesca
mangiata da mio bisnon­no.

E che ansimo, amore, è stato
accoppiarci io e te
su quel pez­zo di prato
morbido di taràssaco e valerianella,

che angoscia, che singhiozzo,
pensando in mezzo ai baci alle zampine
che ci sca­vavano sotto.

(*) Prima settimana di Quaresima.

***

Capita poi che un lettore abbia, come si dice, ambizioni letterarie (presunzione di dilettante, no?) e si metta in testa di mettere giù un romanzo storico ambientato ai tempi in cui floruerunt i poeti dello spirito (inter exsputos artis poeticae etc. etc.).
Eccola, la ciupinara! Vive appunto, viveva anzi (oggi molto è cambiato), nelle pertinenze di Contrada Bandini, ed esce dal cunicolo a incrociare l’andirivieni di alcuni personaggi.

Quello che ho imparato. Quello che ricordo.

Una brezza già dolce agitava i rami in fiore dei ciliegi sui poggi alti di Valrovina, sopra contrada Bandini. Pareva da lontano che la luna in tre quarti animasse a vita la valle tutta e il brulicare dei rami fosse il benvenuto alla nuova stagione. Lasciammo i cavalli nei pressi dell’ultimo podere e ci avviammo lunga la mulattiera in salita, fino al margine dell’ultima terrazza. Fiori bianchi sul nostro capo, notte di fate, e più su le stelle erano una fitta pioggia di aghi e brividi. La notte vive nei nostri passi sulle foglie accartocciate, nella cincia che saetta la testina blu in giro per le siepi in cerca di bacche, nel fruscio del porcospino che ficca il grugno dappertutto, e che sia un verme, una piccola vipera, un bruco che non diventerà farfalla, si lecca naso e labbra e riprende a frugare… attenti, le disperate strida, grida dolenti… la civetta sul ramo richiama.

Fu qui che ci fermammo. Fu qui che Cunissa venne vicina e pose un dito sulle mie labbra.

«Shhh! Non parlare…»

Fu qui che, maschio, il desiderio d’usar con la femmina mostrai. E no, non era la prima volta, ma su quel pezzo di prato, che ansimo, amore mio! Che forza, che tremore, e i rami carichi di fiori, futuri frutti, si incurvavano in basso, gli animali della notte erano all’erta e assistevano al rito umido e caldo. E tu Cunissa, aggrappata a me, stretta stretta. Il tuo respiro sulla mia guancia. La tua pelle bianca, bella, molle e sottile, la mia pelle scura sulla tua, il fine tatto. Il tiglio profumava accanto.

«Cunissa… io… io…»

«Dai, Amalrico. Caro, sì…»

Fu qui che il mondo, il dorso scuro della montagna, gli aghi delle stelle, presero a roteare come in un silenzioso turbine. Qui allargai le braccia e con Cunissa strinsi la terra, erbe e foglie e l’humus, e l’attirai a me. In quel nostro essere insieme, uniti tra noi e uniti con la terra, eravamo così pienamente, integralmente umani… La notte chiara delle stelle trapassava nella notte sotto il suolo, dove mai c’è luce, e sapevo che quella notte attendeva tutti noi, attendeva me, attendeva Cunissa, pur così viva e tremante, e pronunciai allora una preghiera silenziosa al buio della terra, che non avesse fretta, che differisse un poco il nostro ritorno, che ci usasse pietà, a noi che stavamo al limitare di quel nulla.

E qui vidi nel fondo della terra le mille e mille facce di chi il nulla abitava. Quella notte essi sembravano esser stati scossi dal loro sonno e aver rivolto gli occhi vuoti verso di me. Ma non c’era la perenne domanda muta di quegli occhi vuoti, “perché non sei qui?”. Non c’era domanda e rimprovero, ma anzi una sorta di sollievo, lontane vestigia di vita in quelle membra spente da gran tempo. Era come se in quel pezzo di prato avessi portato con me, dentro di me, i mille e mille corpi che altrove avevano seguito il destino di disfacimento, e con me, nel trasporto di quella notte, essi avessero finalmente il loro atteso riscatto. E Cunissa altrettanto fosse per loro l’atteso riscatto. E insieme uniti Cunissa e io, premuti alla terra, celebrassimo la cerimonia di redenzione delle miserie umane. Concordia, desiderio di essere di due una cosa, miracoli…

A lungo restammo vicini e confusi insieme, a lungo ascoltammo il nostro respiro, i soffi tiepidi del vento, indugiammo con la brezza tra i fiori, tra un frinire di grilli. Finché un sordo calpestio, un piccolo lavoro sotto le radici dell’erba, strane zampette che aprono il cunicolo, occhi ciechi come quelli dei morti che mi porto appresso, un naso appuntito sulla traccia di vermi e di insetti, che spunta dal buio della terra e che dice che anche lì, dalla casa dei morti, si avventura la vita e la fame, e c’è un incessante cercare, e la zolla più dura si spezza e si rivolta.

«Cunissa… questa notte… qui… è un bel posto per morire…»

«Shhh! Non parlare… la ciupinara vien su.»

Tornai da solo sul colle l’indomani. Tutto era immoto sotto un sole che prosciugava la terra e le piante. I fiori bianchi e rosa dei ciliegi buttavano un intenso profumo e ogni cosa, fino al rilievo stesso della valle, era divenuta per sempre saldo possesso della signora di quei luoghi, Cunissa. Alte nel cielo due aquile roteavano tra le nubi sui monti. Anch’io, lassù, fino all’estrema vertigine della vita! La vita, ovunque arriva! Presi a correre come un indemoniato lungo il sentiero dei boscaioli. Su, su, sempre più su, al margine dell’altopiano, fin dove la salita finisce, dove la vista abbraccia Valrovina, i colli dietro, l’intera pianura, e il cielo aperto sopra. Su, a diventare il guardiano di quella terra.

Quello che ricordo. Tutto quello che mi è rimasto – non è tanto. Ma un qualcosa è rimasto dentro da allora, come se il tempo, il trascorrere dei lunghi anni, sia uno scherzo, uno strano errore di gente sciocca. Qualcosa che allontana via via le cose presenti, persone, parole, ogni orizzonte del mondo che ho davanti, e le innumerevoli intenzioni della vita corrente. Qualcosa che avvisa che il conto dei miei giorni è fatto da allora su un foglio sbagliato e la somma non torna. Un ammanco, un debito. Un gusto amaro in ogni piacere, un aggravarsi indebito di ogni malessere.

«Mi sembra di conoscerti da sempre…»

Lei non aggiungeva altra parola. Rimaneva quel suo guardare intento e assorto, il contatto diretto degli sguardi, folla di domande mute, enigmi, specchi dell’anima che non possono mostrare il futuro ma solo un appannato presente, desiderio di adesso. E dopo troppi anni ho imparato che avrei dovuto dire altre cose, avrei dovuto essere prudente in quell’avvenimento, in quello strano ardore che come un incanto mi spingeva ad andare avanti e avanti e oltre, sempre più vicino a lei… sempre più dentro… e c’era soltanto lei davanti a me, intorno a me, e il mondo si era arrestato…

Tutto questo accadeva ogni volta che scorgevo la mia amata. Cunissa è il suo nome, mi basta pronunciarlo, sussurrarlo a me stesso e per un istante il corso delle cose è sospeso: un chiuder di ciglia, una vacanza dell’anima. Oggi come allora, e per questa ragione affermo che il tempo è una burla divina in cui siamo cascati – un gioco di chissà quale dio. Oggi come allora, ma quando lei mi era ancora vicina, ogni volta iniziava una vita nuova, mai accaduta prima. E così di fronte al nuovo ridiventiamo fanciulli, abbiamo stupore, gran meraviglia, e non abbiamo parole, non pensiamo al male, e tutto è una gioiosa scoperta.

Cosa naturale è per l’uomo conoscere donna. Naturale desiderio, ma la reale scoperta è difficile, avviene a gradi, col successivo ripetersi di messaggi, cortesie, incontri… perché con la donna l’uomo ha di fronte un dissimile essere, impossibile da comprendere, con cui egli trova un accordo faticoso a prezzo di confronti e conflitti ignoti a se stesso. Quel che si scopre lo si può sapere soltanto dopo, qualche volta molto tempo dopo, a cose finite. E spesso invece quell’accordo faticoso, quella difficile scoperta, l’uomo rifugge, e fa ricorso a volti di menzogna, che è violenza contro la verità.

«Mi sembra di conoscerti da sempre…»

Lei non rispose. Il cielo solo sa forse se già allora lei si accorgesse di quell’accadimento. No, non era una conoscenza del dove e del quando della tua vita di persona. Cunissa, io non conosco nulla di te, e non ho mai conosciuto nulla di te nemmeno allora, solo quello che mi mostravi e dicevi, e quasi tutto era vuota chiacchiera, o nascondimento… anche tu portavi con te occulte paure. Ma c’era qualcosa che mi pareva di conoscere tanto bene, o che non sapevo di conoscere così bene. Non te, donna Cunissa, riconoscevo, ma la radice umana da cui sei fiorita, che incontrandoti ho riconosciuto come mia radice, senza accorgermene subito. Ecco perché, Cunissa cara, quando ci siamo guardati, e avevamo vent’anni, mi è sembrato che il mondo non fosse una landa estranea, ma la mia vera terra, e tu fossi il ponte che mi portava a casa. E poi il ponte è crollato. Puoi capire questo? Sai che cosa sarebbe un tuo cenno per me? Per i dubbi che hanno corroso tutti i miei giorni? Il dubbio che tu sappia cose di me che io nemmeno sospetto e che non voglio sapere?

Ecco, nella mia mente prendo a discorrere con un fantasma. Ah… sapere che cosa Cunissa abbia visto allora, guardandomi, che cosa sia passato attraverso i suoi occhi… sapere quale posto io abbia tenuto nel suo cuore… e tenerlo, quel cuore di Cunissa, essere di lei la casa… tutto quello che avrei voluto, per lei, per me. Solo poche cose ho conservato – divenute tanto grandi nel ricordo. Ma quello che ho imparato ha avuto un caro prezzo.



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