Ferrigni Pietro F.C., Firenze – Lo scoppio del carro

Da Paolorossi

Firenze – Il carro

È la mattina del Sabato Santo, una mattinata tutta primaverile, tepida, chiara, serena, coll’orizzonte in festa, e il cielo in gala. Suonano le nove. Tre o quattro drappelli di contadini stanno fermi sul Prato dinanzi alla facciata d’un edifizio curiosissimo che pare la cassa colossale d’un vecchio orologio a pendolo…. una gran parete di legno, tinta di bigio da terra a tetto, e rizzata tra due case come lo sportello d’un armadio tra i due stipiti d’ una porta condannata.

A un tratto si ode un gran rumore di chiavistelli e di catenacci, uno scricchiolìo di legname intarlato, la parete intera si muove, gira pesantemente sui cardini cigolanti, e dalla immane apertura apparisce una specie di piramide nera, bizzarramente sagomata, e montata alla meglio su quattro ruote…. qualche cosa come un enorme pasticcio di fegato d’oca rinchiuso in una gran còccia di pelle d’ elefante.

Nella parte inferiore di quel catafalco si veggono qua e là certe lumeggiature di colori che marmorizzano la superficie untuosa del legno ; e, sparse per quell’intingolo bruno, certe teste e certe gambe di guerrieri antichi che fanno sospettar l’esistenza di un quadro a olio. Oggi è un quadro a unto, e non ci si capisce più nulla.

V’ha chi dice che cotesto pagliaio di legno nero sia il carro trionfale su cui messer Pazzino de’ Pazzi, duce dei Toscani alla Crociata di Goffredo di Buglione, percorse al suo ritorno le vie di Firenze, acclamato dal popolo che salutava in lui il prode campione salito pel primo a piantare la croce sulle mura della conquistata Gerusalemme.

Firenze – Il carro

V’ha per contrario chi afferma che è solamente il carro modesto su cui anticamente si portava alla Cattedrale il fuoco sacro. Comunque sia, è un carro brutto di molto, che sta ritto per miracolo di Dio, e si circonda al giorno d’ oggi di cartoccini di polvere pirica destinati a un fuoco d’artifizio che deve bruciare in pieno mezzogiorno !

La tradizione fiorentina racconta che a messer Pazzino de’ Pazzi, in premio del suo valore nel conquisto di Gerusalemme, furono donati tre pezzettini di pietra feccia tolti al sepolcro di Cristo, e da lui recati in Firenze e donati alla chiesa di Santa Maria sopra Porta, donde si prendevano ogni anno per accender con essi la prima favilla del fuoco sacro nella mattina del Sabato Santo. La famiglia de’ Pazzi faceva le spese del carro pieno di fuochi artificiali che serviva al trasporto della venerata reliquia, documento e ricordo delle glorie di casa; e otteneva in compenso il privilegio d’esser la prima ad accender la sua facellina al fuoco benedetto, e d’accenderla ai carboni ardenti del carro, portato apposta dalla piazza del Duomo fino al quadrivio ove si ergevano le sue torri e i suoi palazzi.

Che parli il vero o affermi il falso, la tradizione ha durato or ora otto secoli e dura anche adesso, fresca e vivace come fosse inventata da ieri. Il carro si muove una volta all’anno per fermarsi innanzi alla porta maggiore della Cattedrale, poi, seguendo il lato destro del tempio, procede fino al quadrivio di via del Proconsolo ove fa sosta sul canto del palazzo che già fu de’ Pazzi ; e ogni cosa, s’ intende, a spese della famiglia di questo nome, che per levarsi una volta per sempre cotesto pensiero, ha stabilito un fondo perpetuo e ha delegato al Municipio l’ ordinamento della Cerimonia.

È mezzogiorno. Siamo sulla piazza del Duomo; il carro è al suo posto dinanzi alla porta maggiore.

La folla dei contadini, scesi giù dalle colline circostanti, si accalca intorno al bel San Giovanni, si arrampica sulle palizzate che si estendono lungo la facciata di Santa Maria del Fiore, si stringe intorno alla macchina pirotecnica, si stende per tutto lo spazio interposto tra via Calzaioli e via de’ Martelli. È un brulichio di teste che sfidano i raggi cocenti del sole ; è un ondeggiare di spalle, un giuocare di gomiti, uno scalpicciare di piedi, un ridere, un chiamarsi e rispondersi da lontano, un mormorio continuo e confuso, interrotto a quando a quando da momenti di profondo silenzio.

Firenze – La Colombina

Si aspetta la colombina di fuoco che dall’altar maggiore del tempio volerà ad accendere le girandole e i mortaletti nascosti ne’ fianchi del gran carro, e tornerà poi, scorrendo lungo la cordicella tesa, a spengersi scoppiettando sotto l’immensa cupola di Brunellesco.

Se il doppio viaggio si compie senza intoppi e senza disgrazie, è segno che la misericordia divina allieterà di pingue raccolta le ubertose campagne della capitale toscana…. se il filo si rompe, o la colombina si ferma, o le sue ali sfavillanti bruciano a stento lungo la cordicella, avremo scarsa la mèsse, arrugginite le spighe, gli olivi poveri, le uve malate e vuoti i granai.

Tutti gli occhi sono rivolti alla porta donde ha da scaturire la colombina miracolosa.

“L’anno passo,” mi dice un capoccia con un’aria di profonda convinzione, “la e’ intrampolò su ippiù bello, e la sfiatàa tutta da una parte com’un gobbo scarmanato ! Sa ella icch’e’ ci fu di novo?… Iggrano mi fece delle cinque in piano, e ivvin di collina parca brodo di fagioli, sarmisìa !…”

“E la figliola, poerina,” soggiunge la massaia colle lagrime agli occhi, “me l’ebbi a trovare piantata da iddamo che la unn’ era più. Vergine santa, da riconoscersi, e un ci fu da avenne bene per se’ mesi. Che la mi fa celia ! E poi m’ hanno a venire a cantare che son fisime ! Gli è che un si crede più a nulla….”

“Gigia,” urla un giovinetto un po’ più in là, “ch’e’ s’ ha a aspettare un pezzo questo stianto ?”

“A me tu me la canti ?” risponde la Gigia facendo il bocchino da ridere. “Tu l’ha’ a dire all’Arcivescovo….”

“Dica oh! sor coso! la si tiri un po’ più in là! icchè la rimugina, si por sapere?…”

“Che bovi. Dio li salvi” esclama un bifolco piantato innanzi alle due coppie di manzi candidissimi,

attaccati al carro, e tutti superbi delle belle ghirlande e de’ fiocchi tricolori.

“E che corna, Sant’ Antonio benedetto” dice un altro guardando la moglie. “Ci vorrebbero per noi !”

“Icchè la guarda lei?…” interroga un giovanotto che ha la sposa a braccetto ed è geloso come un Otello in cacciatora.

“Io? guardo le bestie!…” risponde l’interrogato piantando gli occhi in faccia alla coppia felice.

In Duomo la folla si pigiia sotto le navate, si strizza, si dimena, allunga il collo, e si rizza sulla punta de’ piedi. Ecco…. Monsignore si muove verso la colonnetta alzata al balaustro del coro. Gli danno in mano il cero benedetto…. lo accosta alla colonna…. si sente uno scoppietto, poi un fruscio d’ aria sprigionata dal tubo conduttore…. una scappata di faville…. il fuoco monta al capitello…. la colombina s’ incendia, si muove, scivola lungo il filo…. tutti si fanno il segno della croce, tutte le teste seguitano per aria la traccia luminosa….

“Va bene…. vien bene….” un urlo immenso esce dalle mille gole del popolo sulla piazza. Dalle finestre si spendolano mille testoline curiose. La colombina arriva, batte sulle pareti del carro, si ferma un momento, poi retrocede rapidamente e vola di nuovo verso l’ altar maggiore.

“La va come una sposa!…” gridano i contadini.

Firenze – Lo scoppio del carro

Si sente un tonfo, poi due, poi dieci. Il carro si circonda di un fumo denso e bianco, che va alzandosi lentamente per aria.

“Hurrà!… Avremo un raccolto da terra promessa!”

Un quarto d’ ora più tardi i bovi tirano sul giogo, le ruote girano, il carro si scrolla, tentenna, cigola, scricchiola, dondola, e gira la cantonata del campanile di Giotto. Pare una nave collo scaffo per l’insù, ballottata da un mare in tempesta.

Una turba di monelli, fa la ruota attorno alla gran macchina. La folla dei contadini, serrata e compatta come un banco d’acciughe al passaggio dello stretto, sfila tra il campanile e la Misericordia, e s’avvia dietro al carro verso il Canto de’ Pazzi dove si ripete la medesima scena.

Tutti masticano qualche cosa, arancie, castagne secche, schiacciate coll’olio e col sale, brigidini, panini collo zibibbo, biscottini cogli anaci…. o sagrati…. quando i tacchi del prossimo posano sulle scarpe nuove. Per i piedi non importa!…

Un’ora dopo tutte le locande son piene, tutte le osterie rigurgitano d’avventori. La colombina è andata bene! E i contadini cominciano, col nome di Dio, a mangiare, sul raccolto venturo, la parte…. del padrone!

( Ferrigni P.C., Su e giù per Firenze, 1881 )

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