Festival di Berlino. Recensione: SAINT AMOUR, con un ritrovato, ottimo Depardieu

Creato il 22 febbraio 2016 da Luigilocatelli

Saint Amour, un film di Gustave Kervern e Benoît Delépine. Con Gérard Depardieu, Benoît Poelvoorde, Vincent Lacoste, Céline Sallette, Gustave Kevern, Andréa Ferréol, Chiara Mastroianni. Competizione (ma fuori concorso).
Un padre e un figlio, di mestiere agricoltori e allevatori, intraprendono insieme a un giovane tassista un viaggio per le vie francesi del vino. Faranno strani incontri, e uno sarà decisivo. Stavolta il duo registico di Mammuth e Louise-Michel smussa il tasso di provocazione (e anche di sgradevolezza) e realizza un film che è un omaggio al mondo contadino. Con un personaggio di padre tra i più sfumati e meno convenzionali che si siano visti ultimamente. Ottimi Depardieu e Poelvoorde. Voto 7
Uno di quei film inseriti dalla Berlinale nella sezione Competition però con sottodicitura Out of competition. Vale a dire, in competizione ma fuori competizione. No, non è una mia allucinazione, sta scritto così nel programma sotto a un pugno di titolo. Controllare sul sito, prego. Oltre a questo Saint Amour, Hail, Caesar! dei Coen, Chi-Raq di Spike Lee, Mahana di Lee Tamahori e Des nouvelles de la planète Mars. Siamo nel regno dell’assurdo, ma tant’è. La contraddittoria etichettatura sta a indicare quei film che fanno parte della vetrina maggiore, la Competizione, ma non vengono messi in concorso per l’Orso d’oro. Questo per far venire ulteriori mal di testa a chi già fatica a districarsi del labirinto delle infinite, pletoriche sezioni e sottosezioni in cui si ramifica la Berlinale. Il festiva più tentacolare che c’è. Ma veniamo a Saint Amour, che poi è un vino che i due protagonisti, il padre Jean (Gérard Depardieu) e il figlio Bruno (Benoît Poelvoorde) degustano in uno stand mentre stanno a Parigi alla fiera dell’agricoltura e del bestiame dove loro, contadini e allevatori, han portato in competizione il loro mastodontico toro, il gioiello di famiglia (che papà accuratamente pettina, liscia, rasa com’è giusto per una star). E proprio degustando che vien loro in mente di intraprendere un giro per le vie francesi del vino, e allora via, in un taxi guidato da un ragazzotto sempre lì al telefono con la sua donna e a rendere partecipi i due venuti dalla compagna delle sue maglianti performance sessuali. Avete in mente Sideways di Alexander Payne? Questo film del duo belga Kervern-Delépine un po’ lo ricorda, e anche stavolta difatti degustando degustando e viaggiando viaggiando i tre faranno cose e vedranno gente che cambieranno la loro vita. Una commedia con un che di grottesco fiammingo, come sempre o quasi nel cinema belga – un cinema fortmente connotato, riconoscibile – ma che si pensava, visti i precedenti dei suoi due registi, più acre, sgraziata, sghemba, acida, disturbante. Invece stavolta il duo responsabile di film come Mammouth e Louise-Michel, oltre che del bellissimo Near Death Experience con lo scrittore Michel Houellebecq (che torna anche qui in un cameo quale tenutario di un miserabile bed and breakfast), abbassano il loro usuale tasso di sgradevolezza, smussano, ammorbidiscono, si concedono anche un happy end, pur se fuori convenzione e alla loro maniera non allineata. Nel suo fondo, Saint Amour è una commedia brusca, ma a suo modo tenera e compassionevole, su un vecchio padre-patriarca assai saggio che ama il suo figliolo sgobbone, una pasta d’uomo anche lui, e però sfigato, perdente, goffo, ingenuo, non conciliato con il mondo e dal mondo respinto. Bruno ha sempre lavorato duto nei campi e nelle stalle di famiglia, ma non ha aviuto mai il suo pezzo di soddisfazione, è di quegli uomini che non piacciono alle donne, non è mai riuscito ad avere una compagna, è un alcolista (è lui che trascina gli altri sulle vie del vino). Nei momenti migliori del film si resta incantati da come il padre protegge senza essere soffocante e invadente quel figliolo cui vuole un bene dell’anima, ma così intimamente fragile. Ecco, dopo tanti conflitti edipici o dalla parte di Crono visti al cinema, dopo tanti padri che non perdonano ai figli le loro debolezze e li rigettano (penso, stando alla Berlinale, a Mahana di Lee Tamahori), Saint Amour ne presenta uno differente. Personaggio bello assai, cui Depardieu – qui in uno stato fisico migliore di come lo abbiamo visto in The End di Guillaume Nicloux – conferisce sfumature e sottigliezze. Regge bene il confronto Benoît Poelvoorde, attore-feticcio del cinema belga, quale buono e infelice Bruno. Ma il film, al di là di questo nucleo psicofamiliare, è anche un viaggio che un tempo si sarebbe detto picaresco in una Francia profonda, nella sua essenza arcaica e immutabile, legata alla terra, al proprio passato, percorsa e abitata (anche) da personaggi mattocchi e stralunati in puro stile Kervern-Delépine. Fino alla donna tenutaria di un albergo diffuso fatto di case sugli alberi e altri ecologismi, che sarà la donna del destino per tutti e tre. Saint Amour è un omaggio al mestiere dell’agricoltore, presentando un padre e un figlioì innamorati di quel fanno, della terra che coltivano, delle bestie che allevano, anche se sanno che il mondo va da tutt’altra parte e disprezza chi come loro si sporca le mani nel fango e nel letame. Quando incontrano una ragazza che si vergogna a dire a loro, e agli amici suoi, che il suo promesso sposo è un contadino (scena illuminante), Jean e Bruno le spiegano la bellezza dell’esserlo, dei contadini. Daa seempre attratti dai perdenti, stavolta Kervern e Delépine compongono un’elegia del mondo contadino, anche se lo fanno a modo loro, senza darlo troppo a vedere, senza semtimentalismi e sdilinquimenti ecologisti, semmai nascondendo la comprensione e la pietas sotto il ghigno beffardo, lo sghignazzo e l’apparente cinismo. Partecipazioni speciali e amichevoli di Chiara Mastroianni e Andréa Ferréol.