Anno: 2014
Durata: 84'
Genere: Drammatico
Nazionalita: Argentina
Regia: Luis Ortega
Lulu, dell’enfant prodige del cinema argentino Luis Ortega, è la prima pellicola in cui mi imbatto nella ritrovata (nel nome e nella forma) Festa del Cinema di Roma. Mondo Cinema è la porzione che la Festa del Cinema di Roma dedica a pellicole più autoriali. Anch’essa, nella formula festa- giocattolo, in mano al solo giudizio del pubblico nel premiare il film che lo ha coinvolto maggiormente.
La nascita è il momento più illuminato e terrificante della nostra vita. Così pare dirci tra le righe della sua favola metropolitana il giovane regista argentino (classe 1980) nel tratteggiare due acerbi vite unite dal desiderio di non crescere. Ludimla (la bella e pura Ailín Salas) e Lucas (il fragile Nahuel Pérez Biscayart) vivono ai margini e in un mondo tutto loro dentro lo sfondo di una Buenos Aires grande scatola urbana senz’anima, dove i più (massa umana impersonale) si muovono in modo ordinato ed uguale, stando nel posto che devono esattamente coprire… Ludmila e Lucas no. Entrambi, in modo differente, esprimono il rispettivo disagio verso un ineluttabile esistere fatto di responsabilità, doveri, obblighi, dolore, sofferenza… Non si vola più quando si cresce, ci sussurra Ortega nei no sense comportamentali che Lucas oppone a chi si imbatte nel suo spazio vitale, nella poesia che inutilmente e goffamente tenta di afferrare dalle cose e dalle persone che lo circondano.
Il giovane esterna il proprio io imbattendosi in un reale per lui non filtrato- mediato che dalla sua libera percezione: con una pistola vera, il suo giocattolo che tiene con sé come un bimbo tiene una spada contro i mostri, spara ad un mezzo busto bronzeo nero e possente (simbolo della maturità precostituita a cui si oppone) nel parco di fronte alla piccola baracca dove vive con Ludmila. E si getta nel mondo con la stessa irruenza e follia, come un bambino.
Ludmila fugge da una famiglia colpita dalla malattia del padre, fugge dalla perdita, dal dolore… “Voglio vivere senza sapere nulla”. Le sue giornate vagano dentro alienazioni urbane tra ricerca di piccole gioie di abbandono e la consapevolezza di non avere via d’uscita: sa che Lucas è un ‘pazzo’, sa che non avranno mai un bambino e una vita a modo loro, che anche il ritorno a casa non l’aiuterebbe…
Ortega ci trascina dentro una visione profondamente attaccata alla realtà (anche grazie ad una fotografia matura e rigorosa), dal cui contorno ben saldo le due giovani figure umane tentano di trasfigurarsi e trasfigurare ciò che le attraversa. La macchina da presa li accompagna in maniera complice il più delle volte, acutizzando prospettive, dissociazioni, empatizzando con stati interiori, delineando il contorno urbano del loro malessere. A volte compare qualche ingenuità anche simbolica (come il cavallo, messo dove sta senza né capo né coda, già usato abusato da molti registi nel codificare la libertà perduta), a volte Lucas esce fuori dal personaggio, caricando troppo rabbia ed aggressione, a volte fa capolino qualche cliché di atmosfere da isolamento esistenziale. Ma nel complesso la pellicola regge nel mantenere una propria identità ribelle e densa, nel renderci una riflessione che parte ed arriva alla nascita: a quel bambino che ciascuno è stato e che viene perduto man mano che si cresce, a quel bambino a cui si ritorna con la morte, a quel bambino che si produce procreando… A quell’ignoto in cui si è immersi e dal quale è impossibile staccarsi.
Maria Cera