Festival di Venezia – Incontro con Peter Landesman

Creato il 02 settembre 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Non ha ricevuto un’accoglienza calorosa Parkland, l’opera prima del giornalista Peter Landesman, che racconta i momenti successivi all’attentato di Dallas al presidente John Kennedy. Ma nonostante non abbia entusiasmato, è impossibile negare la notevole interpretazione corale del cast, che vede tra i suoi interpreti Zac Efron, Billy Bob Thornton, Paul Giamatti, Jacki Weaver, Marcia Gay Harden. Peccato, però, che ad accompagnare la pellicola alla sua première veneziana, oltre al regista, sia arrivato solo Tom Welling (l’ex Superman della serie Smallville).

Peter Landesman, ormai tutti conoscono nei particolari le dinamiche dell’assassinio di Kennedy. Epure nel tuo film sembra una storia mai raccontata. Come hai fatto a raggiungere quest’effetto?
Dal ’63 a oggi si è speculato molto, anche troppo, sull’attentato di Dallas. Io non volevo raccontare ciò che è stato raccontato già centinaia di volte, ma volevo trovare un punto di vista diverso, nuovo. Il mio obiettivo era dare risalto a quelle persone comuni che sono state legate a quel tragico evento. Io come giornalista ho documentato molte guerre e anche l’11 settembre. In questi momenti ho notato che le persone a volte tirano fuori una natura eroica. Con questo film volevo proprio mostrare quest’eroismo, il coraggio che molte persone hanno dimostrato quando è stato ucciso Kennedy.

Nel film descrivi molti personaggi reali che quasi nessuno conosce…
C’è molta ignoranza sull’attentato a Kennedy. Ad esempio, anche Tom Hanks, che ha prodotto il film, non sapeva che Lee Oswald, il presunto omicida del presidente, avesse un fratello. Il mio intento era portare sullo schermo le emozioni di queste persone comuni.

Che tipo di ricerche hai fatto per ricostruire i fatti?
Ho consultato le trascrizioni delle conversazione tra bodyguards, servizi segreti, i fratelli Oswald. Nel film tra l’altro, abbiamo potuto utilizzare le immagini del vero video di Zapruder, che forse è uno dei più famosi video di sempre. Ma non ho voluto mostrarlo in modo diretto, ho preferito farlo vedere riflesso sulle lenti degli occhiali di Paul Giamatti. Credo che così arrivi addirittura con più forza.

Sembra ci sia un po’ di empatia nei confronti di Oswald?
Empatia mi sembra esagerato. Il nostro film non vuole dare giudizi o cercare verità nascoste. Sentivo solo la necessità di portare sullo schermo delle vicende umane, e ho cercato di guardare ad Oswald solo e soltanto come essere umano.

Il titolo, Parkland, sembra quasi essere una metafora di tutti gli Stati Uniti…
L’abbiamo pensato anche noi, molte volte. Potevo intitolarlo The Hospital, ma in fase di sceneggiatura mi rendevo conto che in realtà Parkland era come un luogo mentale, dove non c’è più spazio per i sogni.

di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net


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