Festival letterari: una semplice operazione di marketing?

Creato il 02 luglio 2013 da Lalettricerampante
Come vi avevo già accennato nel post sulla mia Grande Invasione, durante l'incontro "Leggere la rete", nel quale sono intervenuti alcuni membri dei più diffusi book blog italiani, è stata posta una domanda un po' provocatoria da parte di un ragazzo del pubblico. Il ragazzo ha chiesto se tutto questo (la conferenza nello specifico, ma anche tutta la rassegna in generale) non fosse altro che un'operazione commerciale, il cui fine è semplicemente quello di vendere i libri (nello specifico della minimumfax, visto che la rassegna è stata organizzata da loro in collaborazione con una libreria di Ivrea). Il pubblico lì presente quindi, per questo ragazzo, altro non era che il target di un prodotto, che è stato accalappiato tramite un'operazione commerciale al fine di un guadagno.

Premesso che io stessa sono uscita da uno di questi incontri (il reading di "Una cosa divertente che non farò mai più" di David Foster Wallace da parte di Giuseppe Battiston) e sono corsa immediatamente a comprare il libro, onestamente durante i giorni e durante gli incontri a cui ho partecipato non mi sono mai sentita una semplice acquirente a cui si stava cercando di rifilare qualcosa. Né in questa rassegna né in altre a cui ho partecipato. Nessuno mi ha puntato una pistola alla testa dicendomi "compra assolutamente questo libro", né mi è stato vietato l'ingresso se in mano non avevo la giusta edizione o se mi ero portata il libro da casa anziché acquistarlo sul momento.
E' ovvio che una rassegna del genere, così come tutte le rassegne, ha anche scopo pubblicitario e di vendita. Ma, almeno per me, risulta impossibile pensare che sia solo ed esclusivamente quello. Si è fatta cultura in quei quattro giorni. Così come si fa in ogni festival letterario, in ogni presentazione di un libro, in ogni intervista.
Poi,  certo, se io sull'onda dell'entusiasmo per quello che ho visto, letto, sentito voglio acquistare il libro è una scelta mia, che ovviamente porta poi un vantaggio alla casa editrice in questione.
L'idea che questi eventi siano semplici operazioni commerciali mi risulta ancor più difficile da digerire se penso alle vere operazioni di marketing che prendono vita ogni giorno ad esempio sui social network. "Mandami una foto e puoi vincere il libro". "Scrivi un recensione e verrai premiato con un buono sconto". "Raccontaci il momento più triste della tua vita e se ci farai più pena degli altri, ti manderemo il libro con una trama ancor più sfortunata".  Non critico assolutamente nemmeno queste iniziative, sia chiaro. Io stessa passo i miei venerdì a decidere che foto mandare ai contest settimanali della Sperling & Kupfer su Facebook (anche se poi immancabilmente non vinco o vinco libri che non mi interessano per nulla). Dico solo che queste mi sembrano operazioni commerciali il cui fine è vendere un semplice prodotto, facendo leva sullo spirito di competizione di chi partecipa. I festival, i reading, gli incontri con gli autori e i traduttori sono invece un modo per dare ancor più valore al libro, per farlo conoscere anche nei dettagli più particolari, per far entusiasmare e coinvolgere il potenziale lettore attraverso l'entusiasmo di chi a questo libro ha partecipato attivamente.
Il fatto che questa domanda sia stata rivolta a un gruppo di blogger si ricollega poi al tanto discusso discorso delle "marchette". Le case editrici inviano gratuitamente i libri ai blogger affinché vengano presentati e /o recensiti.
Libro in cambio di pubblicità. Regalo in cambio di un commento, possibilmente positivo, che verrà letto probabilmente da molti, generando quindi vendite.  Peccato che la domanda è stata posta a un gruppo di blogger che, sebbene abbia dichiarato (non tutti, ognuno attua politiche diverse) di ricevere libri dalle case editrici, non si è mai lasciata ingabbiare in questo sistema (e se esistano blog che invece lo fanno, non mi è dato sapere... o meglio, posso immaginarlo, ho una coscienza critica che mi permette di capire di quali blog fidarmi e quali meno, ma non voglio focalizzarmi su questo).  E questo lascia intendere come, a volte e da parte di certe persone, ci sia una scarsa conoscenza dei blog letterari, che spesso vengono considerati come dei semplici strumenti al soldo delle case editrici. Cosa che, invece, non sono, perché si focalizzano più (o solo) sul rapporto con il lettore, senza alcuna influenza esterna.
Non voglio negare che buona parte del mondo dell'editoria oggi si basi sul marketing nudo e crudo. E' sufficiente vedere le locandine, le pile di libri nei negozi, le pubblicità sui giornali, il clima di attesa che viene creato ad hoc per l'uscita di certi libri e best seller (e Facebook e i social network in generale aiutano molto in questo senso). Ma questo sistema è utilizzato soprattutto dalle grandi case editrici, quelle che spesso puntano più sulla quantità che non sulla qualità di quello che vendono, che sfornano bestseller ogni due giorni e che possono permettersi di spendere tanto in pubblicità diretta. Ma non è tutto così il mondo dell'editoria. Ci sono case editrici che organizzano festival (vedi appunto la minimumfax ma anche molte altre), altre che organizzano serate a tema (mi viene in mente il caffè letterario della e/o sull'isola Tiberina a Roma), giusto per fare due esempi. Certo, lo scopo finale è forse (anzi, sicuramente) lo stesso: vendere libri. Ma cambia il modo, cambia la passione che l'editore o chi per esso ci mette o almeno che trasmette a chi è lì ad assistere (sono sicura che anche i colossi editoriali trovino soddisfazione in certi libri e in certe pubblicazioni a cui tengono particolarmente).
Cambia però, almeno per me, quello che viene in qualche modo "offerto" in cambio al lettore, ovvero la possibilità di parlare, ascoltare, vedere, confrontarsi. 
Non so bene quale sia lo scopo di questo post. Non voglio fare una critica né a quel ragazzo che ha comunque posto una domanda legittima e con un suo perché, né ai grandi editori sforna best seller o a quelli che vendono libri come se fossero mozzarelle. E mi rendo conto di aver fatto forse un'analisi molto superficiale di una questione che, invece, sarebbe molto complessa. E' solo che trovo un po' triste l'idea che alla voglia di fare e diffondere cultura venga sempre associato il discorso economico, come se fosse l'unica cosa che davvero conta (e conta, lo so benissimo che conta, perché mangiare dobbiamo tutti), come se non ci fosse niente di più.
Che poi, siamo noi stessi che decidiamo se essere o meno target commerciali. E se devo scegliere tra farmi abbindolare da una pubblicità su un bus o un reading meraviglioso di un attore, beh, io scelgo senza ombra di dubbio la seconda.

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