(Avviso i lettori che il seguente articolo NON è un resoconto preciso e puntale del Festivaletteratura 2015 e che ogni riferimento a fatti e persone citate potrebbe non essere casuale né accaduti.)
– Allora, che fai, parti?
Alzo gli occhi al di sopra dello schermo, lui sta armeggiando con pentole e bicchieri, io sono sul sito di Trenord e studio le combinazioni orarie.
– Si, alle tre c’è il treno. Arrivo lì in serata.
Prendo la decisione di andare al Festivalettatura di Mantova anche quest’anno, il mio terzo come volontaria nella redazione, nonostante sia oberata di lavoro, ne ho appena iniziato un altro tutto nuovo e con molti interrogativi e cose da imparare e si prospettano deliranti settimane di incastri professionali e impegni lavorativi di più genere. Ma non voglio lasciarmi sfuggire l’opportunità di andare a conoscere, sentire e ascoltare autori stranieri, editori italiani, giornalisti e filosofi, gente con cui forse non sarò sempre d’accordo ma in qualche modo ancora apriranno la mia mente e la porteranno verso nuove prospettive, offrendomi punti di vista sconosciuti o che non avevo considerato e una lista di libri e scrittori che, già lo so, dovevo e dovrò approfondire in un periodo di tempo ancora non programmato né programmabile.
Andrò a Mantova per soli tre giorni, anzi due e mezzo (arrivo la sera del venerdì e riparto la domenica pomeriggio): in pratica, per il weekend, e neanche. Per questo sarò una “velocintaria”: un incrocio tra un velociraptor e un volontario, mi muoverò veloce e avida come il dinosauro ma con scopi decisamente diversi, sarò totalmente dedita ai miei doveri istituzionali di volontaria. Quest’anno faccio parte della redazione social: Ton Vilalta, il nostro capitano e coordinatore, ci distribuirà (me e gli altri avventurieri del gruppo) account ufficiali e social network, con il compito principale di rendere #FestLet sempre più #FestLet.
Arrivo chiaramente tardissimo alla manifestazione (grazie Trenord, perché è giusto che la tratta Bergamo-Mantova che in macchina si fa in un’ora e mezza in treno diventi quasi tre ore) e mezza rimbambita: sul treno mi sono entusiasticamente addormentata mentre leggevo il più famoso dei libri di Franzen. Arrivo e piovono subito due problemi: il primo è che la segreteria del festival è chiusa, perciò non posso ritirare il cartellino che mi contraddistingue come parte dello staff; il secondo è che scopro che domenica c’è lo sciopero dei treni (di nuovo grazie, Trenord, sempre una garanzia) perciò chissà come chissà quando tornerò a casa. La sensazione fortissima che già aleggiava nella mia testa che quest’idea di partire fosse una idiozia evitabile, si rafforza per qualche momento, ma viene spazzata via in due secondi quando scopro l’ospite della serata: Kazuo Ishiguro. Non ho mai letto niente di suo, ma conosco i suoi libri e anni fa vidi e apprezzai tantissimo Quel che resta del giorno pensando che se il film era così, figurati il libro. Seguo l’evento con attenzione, anche perché è tutto in inglese senza interprete: si parla moltissimo di film, scopro di avere gusti in comune con lo scrittore (cita Tarantino e Cronenberg, per dire) e mi convinco che dovrò leggerlo.
Dopo Ishiguro c’è Zerocalcare, gradito ospite ritornante di Mantova, che subisce l’intervista gestita dal gruppo dei più giovani volontari di Mantova (under 18, se non ho capito male) e il solito attacco di fans che gli chiedono disegnetti. Il ragazzo, stranamente, non va in crisi di panico neanche davanti a domande tipo “Meglio Nathalie Portman o Scarlett Johanssen” e continua a regalare schizzi di carboncino fino a oltre alla mezzanotte – chissà quanti plumcake avrà mangiato poi per recuperare le forze.
Noi volontari datati (sia per età che per affezione al #FestLet) finiamo la serata come sempre si fa a Mantova: al bar Laso, famoso per il suo Pugile, un cocktail simile ad uno Sbagliato ma più sbagliato e brutto.
Non vi dico l’ora che facciamo né quello che facciamo mentre siamo lì, non per rispetto della privacy dei miei compagni di ventura, ma perché questo è pur sempre un blog di letteratura, e salto dritta al mattino seguente, in cui il pubblico mantovano può scegliere tra il duo Covacich-Veronesi, un incontro sulla poesia, un film su Gabo, la celeberrima Bianca Pitzorno, laboratori e letture varie, mentre io me ne vado a eseguire la mia prima vera consegna: twittare con l’account ufficiale del festival dalla bellissima cornice del Palazzo San Sebastiano l’intervista che Michela Murgia fa a Ishiguro. Siamo tutti in visibilio, si parla di quello che dovrebbe essere la letteratura e dell’inutilità, se non per ragioni pratiche o commerciali, di dividere i libri in generi, e del fatto che non bisogna mai lasciare che qualcosa che dovrebbe aiutarti diventi invece una gabbia, e tra un applauso e l’altro, noto che la fila di persone per il firma copie cresce in modo estenuante. Abbandono il campo dopo le prime due domande venute dagli ascoltatori, purtroppo anche qui mi ritrovo a constatare che spesso la parte delle “domande dal pubblico” è la più imbarazzante di tutte.
Per chi non ha mai fatto un Festivaletteratura da volontario o non ci è mai stato in generale, devo dire una cosa sui pranzi mantovani: in questa città si mangia dannatamente bene, l’ingrediente principale dei piatti è la divina zucca (verdura che io amo sopra ogni altra) e i ravioli di zucca sono di quelle specialità che non bisogna lasciarsi sfuggire. Volontari, giornalisti, scrittori, blogger, editori e operatori hanno una mensa interna nel Festival : è un momento di convivialità e allegria assoluta, sia perché ci si incontra tutti lì, sia perché la mensa è gestita dai ragazzi dell’alberghiero o aspiranti cucinieri comunque volontari, perciò il clima è familiare e il cibo buono. Qui si sono consumati i migliori tentativi di acchiappo del Festivaletterattura: parlo sia dei flirt e flirtarelli che avvengono ciclicamente alla manifestazione, sia dei momenti giusti per incontrare scrittori e editor. Occhi attenti e forchette alzate, insomma.
Di fame in fame, mi si assegna il secondo compito da velocintaria: recarmi da Caparrós e Gambarotta, che parlano di geopolitica e del problema del cibo nel mondo nella Basilica Palatina di Santa Barbara. L’alimentazione è sempre più presente nella nostra vita, si capisce sempre più e sempre meglio la sua portata politica, Caparrós fornisce dati allucinanti sulla quantità di mais prodotta, ad esempio, il numero di persone che potrebbe realmente sfamare e il numero di gente che muore per fame a oggi, nel 2015, ed è difficile non avere i brividi nonostante siano le tre e mezza di un afosissimo pomeriggio lombardo.
Il mio turno lavorativo è al momento in stand by, perciò spendo il pomeriggio navigando nei mille appuntamenti imperdibili festivalieri: il mega vip Alberto Angela, il super show di Federico Buffa, la resa teatrale di Cipputi di Altan, Javier Cercas con Belpoliti, e davvero tanto altro. Mentre mi sbatto tra bancarelle e viuzze della città, rifletto su una cosa, che mi appare come tratto distintivo di questa edizione: prima o poi, vuoi o non vuoi, ad ogni incontro del festival si parla di rifugiati e crisi di immigrati. È impossibile non parlarne, è impossibile dimenticare la tragedia continua e la brutta figura dell’Europa e del mondo per così dire civilizzato in queste storie, e conferma ciò che mi disse una volta un affezionato cliente in libreria:
«gli scrittori » sottinteso, quelli bravi «ci arrivano prima: hanno la capacità di leggere il futuro e metterlo nelle storie, quasi sempre prima che la politica o la società se ne sia resa conto.»
L’arte, anche la più astratta di tutte, parte dalla realtà contingente, dalla verità attorno, da ciò che sta succedendo; di qui prende direzioni talvolta inspiegabili e inimmaginabili, ma ad ogni modo serve (se possiamo dire “serve”, perché è chiaro che l’arte non debba mai avere una finalità pratica) a riflettere sul mondo.
Riprendo la mia leggera cronaca dopo questo momento riflessivo dicendovi che quel pomeriggio di sabato 12 sono passata dalla poesia con fisarmonica di Franco Marcoaldi all’esecuzione al pianoforte di Marco Dalpane di alcuni dei più famosi pezzi di Frank Zappa. La sera c’era Gene Gnocchi, non l’ho visto ma tutti mi hanno detto che è stato comicissimo e ci credo, il Gene mi sta simpatico.
Domenica mattina, ultimo giorno del #FestLet per me. Ho risolto l’emergenza ritorno a casa grazie a un passaggio auto con un’amica, alle 9 ho lottato per svegliarmi per adempiere al mio ultimo gravoso compito: fare il live tweetting dell’appuntamento filosofico tra Marco Filoni e Tzvetan Todorov. Anni e anni fa ho letto un libro di quest’ultimo per la mia tesi (trattasi de La letteratura fantastica, molto interessante) e sono curiosa di sentire le parole del pensatore. Parla con estrema calma, in un francese molto chiaro e scandito, e l’Illuminismo prende una piega diversa, nel senso di attualità e pregnanza con l’oggi, grazie ai suoi ragionamenti. Parla anche di Francisco Goya e io mi fregio di spiegare al mio collega spagnolo il senso della parola ecfrasi .
Dopo l’illuminazione illuminista, scappo all’Aula Magna dell’Università, per seguire l’incontro con Vanna Vinci, l’autrice de La Bambina filosofica: una che consegna strisce al ritmo dei Sex Pistols, che ha un modus operandi da archivista, che ha un rapporto anche molto tattile con i libri e ne cura pedissequamente anche gli aspetti paratestuali e di packaging, e che lascia intravedere una cultura e una passione per il suo lavoro davvero notevole.
Dopo l’ultimo pranzo insieme agli amatissimi colleghi volontari, le ultime foto, gli ultimi acquisti e gli ultimi appuntamenti del pomeriggio (Richard Ford number one), vado via by car, e mi addormento, come all’andata, con la solida certezza: adoro Mantova e il Festivaletteratura, adoro il modo che ha di metterti in contatto con tutto quello che ami e di espandere e potenziare le tue passioni, adoro il fatto che ti fa conoscere e scoprire sempre cose nuove e ti permette di spaziare da una parte all’altra senza cadute di stile.
Ci vediamo l’anno prossimo, senza dubbio alcuno.
Vi saluto con una breve lista filostroccata di tutto quello che HO a Mantova (in contrasto con il leitmotiv del video girato dai volontari di Mantova, per cui avevi pochi secondi a disposizione per completare la frase “a Mantova non ho”):
ho visto gente che purtroppo o per fortuna ha la mia stessa passione per i libri e per caso o forse no ci si è incontrati;
ho ascoltato la storia di un gatto capace di fare dei ricatti psicologici, di un cane con il nome da uomo e di un uomo con un cognome da cane;
ho PERSO MICHELE MARI;
ho twittato con un critico che apprezzo tantissimo nonostante sia completamente pazzo;
ho mirato la felice ascesa e salutato la semplice caduta di alcuni amori, ricordando quanto mi mancasse il più grande di tutti;
ho visto uno dei miei blogger preferiti senza avere il tempo di andarci a parlare;
ho incrociato Vinicio Capossela, che lo riconosci per il cappello che indossa perennemente a qualunque latitudine si trovi;
ho visto gente capace di spaccarsi di lavoro a gratis soltanto per la gioia di far parte di un tutto molto più grande e più bello;
ho capito che a una certa ora della notte o continui a bere o te ne vai a dormire;
ho saltato alcuni eventi imprescindibili;
HOPERSOMICHELEMARIHOPERSOMICHELEMARIHOPERSOMICHELEMARI;
ho stretto grandi amicizie che durano poco meno di una settimana e si rinnovano benevolmente di anno in anno;
ho bestemmiato il mio tablet, il mio Iphone, relativi batterie e carica batterie e prese di corrente;
ho capito che una parte di me farà sempre parte di tutto questo;
ho sputato dell’acqua in faccia a una ragazza per uno scoppio di risa improvviso;
ho letto, ho scritto, ho riso e pensato;
ho avuto dei bei momenti.