FEUILLETON: Camus e il destino dei giusti. XVI puntata

Creato il 04 dicembre 2011 da Eastjournal @EaSTJournal

di Giovanni Catelli

La pagina

Da quella pagina di Jan Zabrana spirava una forza invisibile, una segreta limpida certezza, qualcosa nel tessuto indissolubile di parole ed eventi, che propagava senza sosta, nel presente, l’evidenza semplice della verità, il puro catalogo delle cose com’erano accadute, la sequenza fatale, irreparabile, di un ordine, di alcuni gesti precisi, di una tragedia senza ritorno.

In pochi hanno letto quella pagina.

E’ impossibile restare indifferenti, non si può sfuggire a quelle parole piane, quasi ipnotiche, a quella concatenazione di eventi, a quella logica fredda, crudele, indistruttibile.

Tutto, è già stato.

Ed è stato così.

Sale una certezza da quelle parole, una certezza lenta e fatale, tragica eppure ormai rassegnata, una consapevolezza interiore, di un infinito ritardo, e di una verità percepibile, pur se celata, e quasi sepolta dal tempo.

Un uomo giusto ha conosciuto, casualmente, quella verità.

Non poteva fare quasi nulla.

Ma non poteva tacere.

E se la sua parola non poteva che smarrirsi nel silenzio, ha confidato nella scrittura, e nel tempo.

Quel tempo che lo soffocava, un giorno avrebbe potuto riscattarlo, e quelle righe, quelle pagine, avrebbero visto la luce, la vita le avrebbe raggiunte, e gli occhi di uomini vivi le avrebbero lette ; dunque bisognava affidare al tempo quella verità, e al futuro, sinché qualcuno riportasse aria e luce alle sue parole, qualcuno che ne conoscesse il valore, che confidasse nella loro fondatezza.

Anche i carri armati, allora,  sarebbero stati vani, e impotenti, di fronte al peso di piuma delle parole, alla loro danza inarrestabile, indistruttibile.

Jan Zabrana chiamava, da quella sua stanza più remota di una prigione, recluso in un tempo infelice, in una vita spezzata, perché dal domani e dal futuro giungesse qualcuno capace di comprendere le sue parole, la dignità del suo dolore e della sua sconfitta.

In qualche modo lui ancora ci chiama, con voce ferma nella distanza, e ci fa dono del suo sguardo, della sua fiducia, della sola speranza che gli resta.

Non lo possiamo tradire, non lo dobbiamo tradire, lui vive ancora nel nostro sguardo, e nella nostra comprensione di quanto ci ha donato.

Non scriveva mai con leggerezza, voleva salvare ciò che valeva del suo tempo, e indicarci tutto ciò che il potere innalzava o distruggeva per puro capriccio, con ottusa ostinazione.

Albert Camus era un giusto, egli lo sentiva come un fratello, qualcuno del suo stesso sangue : non poteva tacere, una volta conosciuta quella verità ; ce la doveva donare, intera e nuda nella sua fredda precisione, in quella geometrica e fatale concatenazione di eventi.

Zabrana è stanco, disilluso : sa che forse tutto è già superfluo, sa che i torti non verranno sanati, e che i carnefici vincono sempre ; ma non può tacere, deve riferire a noi, che lo aspettiamo dal futuro, quel che ha conosciuto, quel che il mondo ignora, e forse ignorerebbe ancora, per sempre.

E’ lucido, preciso, non eccede con le parole : racconta, e i fatti prendono vita sotto i nostri occhi, il buio del passato si dirada, e noi vediamo, come il meccanismo della morte abbia girato a perfezione, come l’effetto fatale sia preceduto da una causa, come la sorte abbia soltanto assistito, alle cupe manovre degli uomini.

Non era il destino, la simmetria dell’assurdo, il fato degli eroi : era una sordida macchinazione, un cieco ingranaggio di vendetta, che aveva mozzato la parola di un giusto, un uomo incapace di vendersi, o servire, un uomo capace di mostrare al mondo le bassezze quotidiane del potere, di qualunque potere.

Dopo l’oltraggio della morte, la suprema irrisione dell’inganno e del silenzio.

No, non si poteva tacere, lasciare i carnefici nell’ombra confortevole dell’oblio, esentati da pena ed infamia, premiati per un gesto immondo, difesi dal buio e dall’ignavia del mondo.

Era troppo.