Fiat e Italia

Creato il 17 dicembre 2010 da Antonio008

Fiat e Italia

 

In passato si diceva che ciò che andava bene per la Fiat andava bene anche per l’Italia. Oggi è ancora così? Da un lato ci si è sempre lamentati degli aiuti pubblici elargiti a favore della più grande impresa industriale italiana e a denigrarne i prodotti, dall’altro lato ci si è scandalizzati quando la Fiat ha fatto sane scelte imprenditoriali.
Oggi la situazione è diversa. La Fiat sta cercando di sprovincializzarsi. È presente nel Sud America, prima marca in Brasile, ha fabbriche in Slovenia, Polonia e Turchia, ha comprato il terzo produttore degli Stati Uniti, la Chrysler, e sta cercando da tempo di entrare nel mercato cinese (anche se le joint venture non hanno mai avuto buona fortuna).
Ed ecco che sono emerse due questioni fondamentali, una legata alla Fiat e una legata al sistema produttivo italiano.
Partiamo dalla Fiat: è sostenibile continuare a produrre in Italia se un Paese a poche centinaia di chilometri offre salari e tassazione più bassi (Slovenia)? È sostenibile tenere operativi impianti che raggiungono al massimo la metà della capacità produttiva? È sostenibile continuare a puntare su modelli di fascia bassa? Risposte: no, no, no. La Fiat fa bene a spostare le produzioni dove sono più economiche, così preserva i conti. La Fiat fa bene a chiudere le fabbriche che non riescono a raggiungere i target produttivi e a spostare quelle produzioni in altri impianti in modo tale da farli lavorare a pieno regime. La Fiat sbaglia a concentrarsi sulle auto piccole. Su questa tipologia di auto si guadagna poco, se non si vendono grandi volumi si finisce per perdere e sono più soggette alle oscillazioni dei mercati. Non dimentichiamoci che lo stesso Marchionne aveva previsto di innalzare le vendite di Alfa Romeo e Lancia a 600.000 unità (divise equamente) già nel 2010!! Leggere i dati di vendita del 2010 fa venire i brividi.
Riassumendo su Fiat: gli obiettivi prefissati non vengono quasi mai raggiunti, Marchionne ha messo in ordine i conti, ma dal lato produttivo i flop si susseguono: Mito e Giulietta non sono bellissime, si è lasciato sfuggire Walter de Silva che aveva disegnato le ultime belle Alfa. Egli ha ridato slancio alla Seat e ora sta rendendo sempre più belle le WV. La Punto Evo è oggettivamente più brutta della Grande Punto. Delle auto di alta gamma meglio non parlare, ogni volta promettono grandi numeri che poi non raggiungono. L’Alfa e la Lancia hanno perso le ammiraglie, la 166 e la Thesis, senza che venissero rimpiazzate. La 159 è sul viale del tramonto. Musa, Idea e Multipla stanno per essere eliminate. Rimangono la Panda (sia lodata) e la 500. Un po’ di Punto sul mercato italiano e le vecchie Lancia Ypsilon. Insomma, caro Marchionne, dove sono i nuovi modelli? Lo dica apertamente se vuole chiudere il settore auto.
Veniamo all’Italia: se si continua ad “offrire” alta tassazione, servizi elefantiaci, conflitti sociali, trasporti merci da Paese in via di sviluppo, è naturale che le aziende vadano all’estero. Che ne dice il governo di collegare il porto di Taranto alla rete ferroviaria e di raddoppiare la Bari-Taranto in 2 anni? Perché non si investe su Gioia Tauro? Potremmo avere due hub fondamentali nel Mediterraneo. Gioia Tauro per le merci da Europa Ovest (Francia, Spagna, Svizzera, Belgio, Olanda, Uk) verso Africa e Asia e viceversa. Taranto per i collegamenti dall’Europa Centro-orientale (Germania, Austria, Repubblica Ceca, Polonia) verso Asia e Africa e viceversa. Basterebbero due porti con fondali profondi, entroterra con interporti e collegamenti ad una decente rete di ferrovie per attrarre una mole immensa di traffici commerciali. Per la Fiat e per tutte le altre imprese diventerebbe più economico e veloce rimanere in Italia. Ma c’è una politica seria sui trasporti?
Riassumendo: investimenti scarsi, alta tassazione, burocrazia e costi di trasporto scoraggiano le imprese, Fiat compresa. Queste sono responsabilità prettamente politiche.
In poche parole:
Fiat: così non si va avanti. Si rischia la chiusura.
Italia: così non si va avanti. Si rischia la marginalizzazione.
Non è disfattismo. È realismo. Se obiettivi strategici così semplici non vengono realizzati da decenni lo sconforto comincia a regnare.


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