Fila, Ghita!

Da Paolorossi

La storiellina di Ghita la sapete? È la storia di tanti!  Questa Ghita doveva essere sorella o figliuola d’Infingardia.

Barga – donne all’arcolaio nei primi anni del ‘900 – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno

La mamma d’Ifingardia diceva:

«Infingardia, ne vuoi del brodo?»
«Si».
«Vatti a piglia il piattello»
«Non più, non più».

E per la pigrizia d’alzarsi rimaneva più volentieri senza.

Così era Ghita. Sua madre la faceva filare, e quando era verno, a quelle giornate di stridore, Ghita s’avvoltolava le mani nel grembiale, e se ne stava lì rimbozzolita a covare il freddo. Allora su’ madre, che tutti i giorni doveva mettere la pentola al fuoco, gli diceva:

«Fila, Ghita!»
«Mi secca le dita
Non posso filà;
Filerò questa state
A quelle belle giornate».

E s’ammicciava giù peggio di prima, e per la fatica di scomodarsi non isbadigliava neanche. Così, con questa canzoncina, scorticava l’inverno, e non faceva mai un bel nulla. Venivano poi quelle giornate lunghe della state, che son quei caldi che si affettano col filo, e il sole pare che non arrivi mai al monte, e Ghita là accoccolata per terra, colla rocca al lato e il fuso vuoto, o appoggiata a un muricciolo, sornacava che era un desio; oppure se ne stava come una melensa a sentir cantare le cicale. Sua madre la vedeva, e gli scappava la pazienza:

«Fila, Ghita!»
«Mi suda le dita
Non posso filà;
Filerò questo verno
A quel bel focherello».

A questo mo’, rimandandosela dalla state al verno e dal verno alla state, non filava mai. Perchè su’ madre era minchiona; ma se invece di tante ciarle, andava là con un bel vettone di frassino, gli smettevan presto, sai, le dita di sudare, e lavorava! È che le mamme discorrono e discorrono, e poi lascian sempre fare ai figliuoli quello che gli pare e piace!

( Idelfonso Nieri, Fila, Ghita!, racconto tratto da “Cento racconti popolari lucchesi”, 1908 )