Chissà se c’è un governo, di un paese occidentale o emergente o in via di sviluppo, che saprà ascoltare la lezione che ci viene dalle Filippine, interpretarla per deviare il cammino dall’imperativo categorico della crescita, prenderlo come un monito e non soltanto come un trailer del colossal catastrofista caro a scienziati e pensatori persuasi dalla decrescita.
In realtà potremmo davvero vederlo come un spot di una pubblicità progresso globale mandato in onda prima del summit sul cambiamento climatico di Varsavia che dovrebbe costruire il negoziato per un accordo da siglare a Parigi nel 2015.
Ormai i vertici sulla catastrofe climatica hanno poca stampa e ancor meno audience nell’opinione pubblica, tra la convinzione paradossale che la crisi faccia bene all’ambiente: calano le produzioni, calano le emissioni, cala l’inquinamento, tra la persuasione che l’allarme sia eccessivo e faccia parte di quegli ostacoli frapposti dal fondamentalismo verde alle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo, e la presunzione che sia ora che i paesi industrializzati, peraltro in recessione, impongano quei limiti che non hanno voluto e saputo rispettare, alle economie che si affacciano prepotentemente sul mercato mondiale in modo da temperare l’irruente e dissipata crescita accelerata.
Almeno sull’entità e sulla qualità profetica delle informazioni scientifiche, c’è poco da avere dubbi: il quinto rapporto dell’Ipcc, l’Intergovernamental Panel on Climate Change, ha lasciatto poche incertezze: siamo noi a condizionare il clima a nostro danno, c’è sempre meno tempo per ridurre effetti ormai largamente irreversibili, si tratta non di addomesticare una tendenza ma di invertirla se dal 1990 al 2012 le emissioni serra sono cresciute del 32%, se il Protocollo di Kyoto si è rivelato insufficiente e non sono bastati né basteranno gli obblighi di riduzione della CO2 per i paesi di antica industrializzazione, se il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti come primo inquinatore impone la necessità di un impegno globale, che dovrebbe entrare in vigore solo nel 2020, probabilmente troppo tardi.
Eppure anche oggi con 10 mila morti sulla coscienza di uno sviluppo illimitato, si sente dire che le Filippine sono una geografia tradizionalmente spazzata da tremende tempeste, si va a cercare in archivi della memoria più letterari che scientifici, l’ipotetica traccia di altri tifoni assassini, per rimuovere la certezza invece che il cambiamento climatico non si manifesta con un gran caldo da combattere con potenti condizionatori o solo con lo scioglimentio dei ghiacci, ma soprattutto con la radicalizzazione degli veneti, sempre più estremi, sempre più ingovernabili, benché non siano imprevedibili, e che hanno ricadute sempre più tragiche e catastrofiche laddove il territorio è manomesso dall’abbandono di colture, dalla deforestazione, dall’abusivismo e dalla cementificazione, dalle opere malate di gigantismo che deviano fiumi e alzano ponti e pesanti autostrade. E che seminano morte certa quando le città si convertono in megalopoli destinate a diventare necropoli di bidonville, slum, favelas spazzate via dalla furia di uragani e tifoni, cui magari si danno nomi musicali come marce funebri.
Adesso si contano i dispersi italiani, si cominciano a dare i numeri per i benefici sms, qualcuno ci rassicura: da noi non può succedere, come se non vivessimo in un paese che viene piegato da una nevicata, che viene travolto da vecchi fiumi che nuove tecnologie non sanno contenere, perché impegnate sul fronte degli interventi invasivi, inutili spesso dannosi, che crolla sfarinandosi per via di cave, cemento scriteriato, abusivismo, le cui costruzioni vengono su a dispetto di controlli, vigilanza, prevenzione, con materiali scadenti e alla faccia di criteri antisismici, mentre si ripete il mantra: non ci sono soldi per riparare il dissesto idrogeologico, ma ce ne sono per ponti di messina, tav, mose, per scavare canali e tunnel, nella ossessiva smania di lasciare imperiture tracce dell’istinto suicida dell’aberrazione capitalistica che stiamo vivendo, così immateriale da voler costruire qualcosa fossero anche dei mostri.
A me Latouche e si suoi poco accorti e poco informati profeti locali ricordano quei vecchietti che tra un tiro a l’altro di bocce rimpiangono i loro tempi andati. Mi sembrano una dichiarazione di rinuncia progettuale, che oppone rimpianto e nostalgia inane a opporsi a chi oggi davvero ci sta riportando indietro, a chi vuole ricacciarci nella barbarie sociale e nell’inferno climatico dell’ estinzione di massa del Cretaceo-Paleocene. Mentre lo sforzo deve essere rivolto a far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi occidentali agli interessi dell’alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario, immaginando un modo “altro” di crescere. Che non basta rendere meno perverso e rapace il modo attuale, non bastano le rinnovabili, l’agricoltura biologica, i vincoli a difesa del suolo, non basta “temperare” produzioni, sistema finanziario, economia predatrice, se intere aree del pianeta sono diventate manifatture del mondo e se nei paesi “civili” e sedicentemente democratici esiste ed è protetta l’Ilva, paradigma della orribile integrazione tra avvelenamento del lavoro e dell’ambiente, annientamento dei diritti e della cittadinanza.
Scriveva Simone Weil nel 1934: “Le macchine automatiche danno origine alla tentazione di produrre molto di più di quanto non sia necessario….il che conduce a spendere senza profitto tesori di forza umana e di materie prime …..“Così il più funesto dei circoli viziosi trascina la società intera al seguito dei suoi padroni in un girotondo insensato”. Aveva ragione lei e hanno ragione le canzoncine infantili: giro giro tondo casca il mondo…