La grande bellezza, Canale 5, ore 23,01. La grande bellezza, regia di Paolo Sorrentino. Con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Isabella Ferrari, Pamela Villoresi, Iaia Forte, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Luca Marinelli. Il film italiano di maggior successo nel mondo degli ultimi vent’anni, non il migliore. Valanga di premi, dall’Efa all’Oscar come miglior film in lingua straniera. Pubblico e critici spaccati tra likers e haters (moltissimi). Che dire? Le analogie con La dolce vita e molto altro Fellini (Otto e mezzo, Satyricon, Roma) sono lampanti. Anche qui c’è un giornalista che ci guida nei cunicoli, nei palazzi e nelle suburre di una Roma santa e puttana, ma più la seconda che la prima. Il talento visivo di Sorrentino non si discute, ma questo è un film che non riesce a darsi un centro e a farsi narrazione vera. Resta un cumulo di frammenti, alcuni sublimi (la parte con la Ferilli è meravigliosa) e molti altri esecrabili (l’episodio finale con la santa è tremendo, una barzellettaccia). Voto 6 e mezzoIl talento visivo di Sorrentino è immenso, lo sappiamo, lo abbiamo visto in tutti i suoi film precedenti, massimamente in Il divo, la sua capacità di montare affreschi grotteschi, goyeschi, notturni e corruschi è acclarata. La grande bellezza conferma tutto e di più del suo autore, si colloca anzi come il suo film più ambizioso e complesso, come il paradigma della sua visione di cinema, del suo modo di farlo, pensarlo, deformarlo. Purtroppo conferma anche la resistenza di Sorrentino allo storytelling, ad abbandonarsi alla narrazione per privilegiare invece l’immagine e l’immaginifico, piegando e subordinando il racconto all’invenzione visiva. Che cos’è questo film? Come diavolo lo si può anche solo sommariamente definire, raccontare? Sì, certo, il film è Roma, ed è il suo protagonista, Jep Gambardella, scrittore di un solo romanzo e poi pigramente adattatosi al lavoro e alla vita di cronista mondano massimo. Non avrei comunque mai pensato che scrivendo per un giornale, e scrivendo cronache mondane, si potesse diventare così ricchi, avere una casa come quella di Jep con terrazza con vista sul Colosseo. Evidentemente devo aver conosciuto altri giornali e altre redazioni, molto diversi e lontani dal mondo di Gambardella. Lo so che bisognerebbe proibire per legge l’aggettivo felliniano (e anche kafkiano, pirandelliano ecc.), ma come si fa a non usarlo per questo lavoro di Sorrentino? Che si direbbe abbia ripassato per l’occasione tutto Fellini, ma in particolare La dolce vita, Otto e mezzo, Toby Dammit, Roma e Satyricon, cioè il meglio. I mascheroni, i pupazzoni e i rari umani che percorrono la sua Roma sembrano La dolce vita 2.0. Della Dolce vita si riprende la struttura, e l’espediente narrativo, quello di un giornalista che Roma la conosce e la percorre nei suoi meandri oscuri, nei suoi cunicoli, nei suoi palazzi e nelle sue suburre. Allora era Mastroianni (in un personaggio ispirato, vuole la leggenda, a Gualtiero Jacopetti), stavolta è Toni Servillo. Come quella Roma, anche questa è santa e puttana, ma più la seconda della prima. Aristocratici, plebei, suorine e pretini, cardinali, signore dei salotti e principesse dell’aristocrazia nera. Aspiranti scrittori, aspiranti scrittrici, escort, cocainomani, spogliarelliste, artisti e artiste, saggi e folli. Attraverso Jep Gambardella attraversiamo tutti i mondi di quella città-mondo che continua a essere caput mundi. Sorrentino ci stordisce con sequenze di bellezza abbacinante, soprattutto quelle dedicate alla città, in una sorta di vedutismo sublimato. Ma il film, volutamente frammentato, ondivago, rapsodico, resta un cumulo di blocchi e pezzi che non si saldano mai, che non si perdono e non si fondono in un insieme, come invece accadeva a La dolce vita di Fellini. L’impressione è di una film smisurato, ma come costruito sulle sabbie mobili, a rischio costante di sgangheratezza. Ci sono cose sublimi, ma anche troppe scorie, e momenti francamente esecrabili. L’incipit (il canto, l’acqua, le rovine) è notevole, e il passaggio brusco alla festa orgiastica (con una Serena Grandi-Saraghina) per i 65 anni di Gambardella è un urlo, una scarica ad altissima tensione. Tutte le scene discotecare sono un incubo di volgarità assai ben riuscito, una discesa all’inferno, un sabba reso con strepitose invenzioni visive e potenza di stile. La parte con Sabrina Ferilli, meravigliosa creatura, bella e straziante, non la si dimentica: l’incontro al club del padre, la festa cui partecipa con Jep, la visita notturna al palazzo, il funerale del ragazzo suicida. E il recupero della Ferilli a questo cinema è uno dei meriti di questo Sorrentino. Ma ci sono cose meno riuscite, anzi fastidiose, anzi insopportabili. Tutta l’ultima parte con la santa in visita romana è tremenda, una barzellettaccia dilatata chissà perché a episodio portante. I fenicotteri sul terrazzo non si reggono proprio e fanno insostenibile simbolismo anni Sessanta da film da cineforum. Certe sentenziosità nei dialoghi, soprattutto quando Jep è in vena colto-citazionista, si reggono ancora meno. Anche il mago con giraffa non è granchè, lo stesso la bambina-artista. Quello che non viene mai meno è l’occhio di Sorrentino e la sua capacità quasi naturale di fare cinema, di trasformare in cinema tutto quello che guarda e che tocca. Ma i capolavori, temo, sono un’altra faccenda. Gli attori: un esercito, tra parti maggiori, minori, comparsate eccellenti (ci sono nella parte di se stessi, per dire, Fanny Ardant e Antonello Venditti; Verdone invece fa, benissimo, l’amico sfigato e non riuscito di Jep). Isabella Ferrari fa la milanese in visita romana ed è più bella che mai. A Jep che le chiede che lavoro faccia lei risponde: “sono ricca”, ed è la battuta migliore di La grande bellezza.