The American, Rete 4, ore 23,22.
Un killer stanco di uccidere. Un film lento e ipnotico, sideralmente lontano dagli ipercinetici, anfetaminici e cocainici action movie ai quali siamo assuefatti. The American non è quello che ci si aspetta, è meglio. Abbastanza coraggioso nello scostarsi dalle ferree regole del cinema-spettacolo, ma non così coraggioso da infrangerle. Un film che resta a metà, però quella metà è molto interessante.
The American non è il film che ti aspetti. Almeno, non è il film che io mi aspettavo. Pensavo di trovarmi di fronte all’ennesimo action & spy Bourne-esque, con il killer che da predatore diventa preda, inseguito da non si sa chi non si sa perché. Intendiamoci, il film di Anton Corbijn è anche questo, e lo è con piena adesione al canone fin dalla classica partenza tra le nevi di Svezia, che subito si sporcano di sangue dopo un agguato cui il nostro eroe (George Clooney) sopravvive, anche se con lesioni dentro che non vanno via. Poi il film svolta. Dall’action si passa alla non azione. Il protagonista, uomo elusivo e dal nome fluttante (Jack o Edward o Mr Butterfly), di cui sappiamo solo che è un killer di mestiere senza che ci venga detto né per chi lavora né contro chi e nemmeno perché debba fuggire, viene mandato dal suo supervisor in un villaggio d’Abruzzo “on the top of a hill”, come dicono le recensioni anglofone. Lì si sistema, forse per riciclarsi, depistare chi lo insegue, forse per ritemprarsi in attesa di tornare in azione, forse per togliersi definitivamente dal giro. Dalla frenesia dello spara e fuggi piombiamo nella vita lenta e nel tempo sospeso del villaggio di montagna, quasi fossimo in un Olmi o in un Giorgio Diritti. È qui che The American sorprende. Le regole del genere imporrebbero subito altri scontri e altro sangue e magari elicotteri che sbucano da dietro i monti e sputano fuori il loro carico di uomini armati, e invece no, non succede nulla e l’elusivo Mr Butterfly si inabissa nell’inazione e nell’autismo. Si tiene in allenamento nella sua casa, pretesto per farci vedere bicipiti e altri muscoli in buona forma del 49enne Clooney, e come unica occupazione assembla pazientemente un fucile ad alta precisione che gli è stato commissionata da un’enigmatica bionda, esperta di assassinii in serie come lui. Lavoro di sublime artigianato, forse la parte migliore del film, ipnotica e zen, che ci fa capire il legame forte che intercorre tra il killer e i suoi strumenti di morte e cosa sia la passione per le armi, cosa sia la bellezza delle armi, piacere estetico così potente eppure così occultato nella nostra cultura ultracivilizzata.
Come un alieno Jack/Edward vaga per il paese stabilendo rari contatti con il prete, uomo che molto ha visto e tutto comprende (gran personaggio, benissimo scritto dallo sceneggiatore Rowan Joffe e benissimo reso da Paolo Bonacelli). E innamorandosi di una ragazza che si prostituisce in un bordello non dozzinale, che è una Violante Placido
dolce senza leziosità, sorprendentemente brava e giusta, soprattutto se paragonata a un’altra piccola nostra star apparsa recentemente in un altro film americano, la Laura Chiatti di Somewhere, che nemmeno la direzione di Sofia Coppola riesce a salvare dal disastro. (Digressione: le scene d’amore al bordello tra Clooney e V. Placido hanno come colonna sonora la Patty Pravo vintage prima della Bambola poi della dimenticatissima Nel giardino dell’amore). Violante Placido invece ne esce con onore, la sua performance non è dispiaciuta ai critici americani, e qualcuno (Todd McCarthy nel suo Deep Focus) ha perfino ricordato che è “la figlia di Simonetta Stefanelli, la sfortunata moglie siciliana di Michael Corleone nel Padrino”. Qui Simonetta Stefanelli non se la ricorda nessuno, lì grazie a Coppola si è installata nel famoso immaginario collettivo e ci resterà per sempre.
Dificile che alla figlia riesca la stessa impresa. The American è buono, ma sideralmente lontano dalla statura di un classico come The Godfather. Anche se il suo eroe stanco e taciturno è l’ultima incarnazione di un archetipo che attraversa la storia del cinema. L’uomo che ha troppo ucciso ed è oppresso dai suoi ricordi e dal passato: quante volte l’abbiamo visto? Però l’abbiamo visto molto tempo fa, quando ancora il cinema concedeva tempi umani, pause e dubbi ai suoi action heroes e anche agli spettatori.
A Todd McCarthy The American ha ricordato certi malinconici, crepuscolari film early seventis come Bersaglio di notte di Arthur Penn o L’ultima fuga di Richard Fleischer-John Huston con un George G. Scott in disarmo. A me se mai ha fatto venire in mente lo straniero senza nome di Clint Eastwood nei suoi western plurimi e soprattutto Frank Costello faccia d’angelo (Le Samouraï) con Alain Delon, meraviglioso Melville anni Sessanta con il killer colto nell’attesa, fuori campo rispetto alla scena dell’azione e del sangue. The American sembra venire da lì, da quel lontano eppure ancora fecondo archetipo. Solo che oggi è in controtempo e in controtendenza, nega sfacciatamente e con una certa temerarietà le norme vigenti dell’action anfetaminico e cocainico ingombro di spari e corpi maciullati, quell’action pulsante e senza tempi morti rifondato dai maestri hongkonghesi e riapprodato e ripotenziato a Hollywood. In The American invece non succede niente fino alla catarsi finale, l’unico inseguimento è tra una Vespa e un’utilitaria (viene in mente quello che ha detto una volta Tarantino a proposito dei nostri poliziotteschi anni Settanta: “quegli inseguimenti con quelle vostre macchinette, ma come facevate?”). The American butta via le ruffianaggini dell’action solito, tanto che ci si chiede come un film così possa trovare oggi un pubblico. Il fatto che nella sua prima settimana nei cinema americani si sia piazzato in testa agli incassi è un miracolo (un miracolo di nome Clooney, suppongo). Le domande sul suo destino commerciale se le fa anche Eric Kohn nel suo blog, sottolineando che il commento quasi unanime del pubblico la sera in cui è andato a vedere il film è stato: boring, noioso. Chapeau, allora, a questo film noioso perché austero e di difficile digestione per i palati odierni assuefatti all’action dopato. Coraggioso. Però non così coraggioso da decostruire e far esplodere il genere, cui in fondo si attiene e nel quale alla fine rientra. Perché siamo pur sempre a Hollywood, anche se nei dintorni delle produzioni quasi-indipendenti, e più di tanto non si può sgarrare.
The American resta a metà, forse va anche un po’ oltre, ma non si decide a percorrere fino in fondo la strada difficile che ha scelto. Devia dal canone, attento però a non smarrire la via maestra per rientrarci qualora fosse necessario. Un film irresoluto, anche se qua e là troviamo tracce del film notevole che avrebbe potuto essere e non è.
Come i dialoghi tra Edward e il prete sul peccato, la colpa, l’espiazione, quasi fossimo in Bresson o quantomeno in un Bresson rivisto e americanizzato via Paul Schrader. Solo che Anton Corbijn non è Bresson e nemmeno Schrader. Non ha il loro coraggio della rarefazione e dell’astrazione. Ma il film non è trascurabile e non merita di venire liquidato come un banale prodotto seriale, soprattutto per il tentativo generoso, forse il sogno, di resuscitare un cinema perduto. Nel buono di The American va messo in conto anche il ritratto di un’Italia rispettoso e fuori dagli stereotipi mandolineschi, perfino la processione finale in cui i destini si incrociano (come nel rosselliniano Viaggio in Italia) è spogliata di ogni folclorismo. Tra i limiti invece bisogna mettere qualche ovvietà di troppo di sceneggiatura, soprattutto nella storia d’amore, e il fatto che l’Abruzzo, pur non cartolinesco, resti solo un fondale generico e irrelato rispetto al suo protagonista, la cui storia si potrebbe svolgere in un qualsiasi altrove rurale e arcadico, la Cappadocia come l’Irlanda o l’Atlante marocchino, e poco cambierebbe. Ma il limite maggiore è George Clooney, troppo comedian per essere convincente davvero come killer in disarmo. Clooney non è Eastwood, non ha l’impassibilità del ruolo. Purtroppo in The American non riusciamo a credergli, mai.