Film stasera in tv: THE FIGHTER di David O. Russell (giov. 16 apr. 2015 – tv in chiaro)

Creato il 16 aprile 2015 da Luigilocatelli

The Fighter, Mediaset Italia 2, ore 21,10.The Fighter, regia di David O. Russell. Con Mark Wahlberg, Christian Bale, Amy Adams, Melissa Leo, Jack McGee. Usa 2010.

Non è il solito film sulla boxe come arma di riscatto sociale e realizzazione dell’american dream. The Fighter è una discesa negli abissi dell’America white trash, il ritratto di una famiglia e di un ambiente dove impera la lotta darwiniana per la sopravvivenza, con una terribile madre-matriarca a dominare su tutto. David O. Russell gira un grande film sporcandosi con una storia dura e sporcando l’immagine con uno stile iper-reale, girando con la macchina a mano come ormai molto cinema indie (e secondo la lezione dei fratelli Dardenne e del docu alla Michael Moore).

In una ideale classifica di film che ti sorprendono favorevolmente e si rivelano meglio di come te li immagini, The Fighter starebbe parecchio in alto. A leggere certe recensioni e vedendo il trailer c’era da aspettarsi il solito film di pugni e redenzione, una di quelle storie cui il cinema americano (ma non solo, penso a Rocco di Visconti) ci ha abituati, dove la boxe diventa strumento di emancipazione sociale di povera gente disastrata, con tanto di trionfo finale sul ring a coronare l’avvenuta riuscita dell’ennesimo american dream. The Fighter è questo, ma è anche qualcosa di più e di diverso, è soprattutto una discesa agli inferi della convivenza umana, un ritratto senza sconti dei rapporti di convenienza e interesse, di puro scambio materiale, che si instaurano in certe (tutte?) comunità sociali e nella cellula che ne sta alla base, la famiglia. In un anno di film darwinianiAnimal Kingdom, The Town, Biutiful – anche questo si aggiunge alla lista ed è insieme all’australiano Animal Kingdom il più duro, con la sua gente affondata nel fango che lotta per non soccombere, puri insetti o belve nella savana, pronti anche a farsi fuori tra amici, sodali, parenti, pur di ottenere una chance in più nella grande partita della sopravvivenza.
David O. Russell, che dopo il bel Three Kings si era perso per strada, resuscita come autore con questo progetto tormentato, passato attraverso molte mani prima di finire nelle sue. Doveva dirigerlo il Darren Aronofosky di The Wrestler e Black Swan, che poi ha lasciato per altri impegni e qui però compare come produttore esecutivo, si era parlato anche di Brad Pitt protagonista, finchè nel 2005 Mark Wahlberg non l’ha preso in mano e si è messo a cercare finanziatori e gente disposta a lavorarci, contattando pure Martin Scorsese che però ha gentilmente declinato l’invito. Finalmente, dopo altri no come quello di Emily Blunt, è stato messo in piedi il cast e la regia è passata a David O. Russell, che proprio in Three Kings aveva già lavorato con Wahlberg, ed era finito ai margini del sistema cinema per via della cattiva fama che si era fatto di regista rissoso e intrattabile dopo essersi preso a cazzotti con George Clooney sul set di Three Kings e litigato con Dustin Hoffman e Lily Tomlin durante la lavorazione di I love Huckabees. Di solito, quando un film riesce ad andare in porto dopo una storia lunga e complicata come questa i risultati non sono buoni, il film risulta sfuocato e invecchiato, come pervenuto fuori tempo massimo, invece questo non succede con The Fighter. I tanti rifiuti ottenuti in precedenza non pesano per niente sul risultato finale, anzi conferiscono un’aura speciale da film miracolato, sopravvissuto a ogni vicissitudine, che non guasta, anzi.

La storia, ambientata nel 1992, è quella, vera, di due fratellastri di Lowell, un postaccio del peggior Massachusetts che fa il paio con lo sfigato quartiere di Boston di The Town di Ben Affleck (e insomma, il Massachusetts non è solo il posto dei bostoniani, dell’aristocrazia wasp e del MIT, ma anche di questi inferni). Micky e Dickie Ward sono figli della stessa madre ma di diverso padre, sono i soli maschi cresciuti in mezzo a sette sorelle che a vederle ti viene paura, da tanto sono fuori misura, obese, saraghinesche (vedi Otto e mezzo di Fellini), agli antipodi dalla femminilità levigata e patinata dominante, mostri che avrebbero fatto felice Diane Arbus. Domina sul clan la genitrice, ancora in forma nonostante le nove maternità e orgogliosa della sua cotonatura laccata genere Hairspray – anche se siamo negli anni Novanta – e dei suoi stivaletti bianchi con tacco da tamarra.
Ecco, di tamarri ci parla The Fighter, o se si preferisce di white trash, di proletariato e sottoproletariato bianco che vive di lavori bassi e precari e malpagati, perennemente sospeso tra occupazione e disoccupazione (più la seconda della prima), che beve e si fa e si strafà, abita in orride case che sono santuari kitsch e ingurgita junk food. A dominare la tribù degli Ward è mamma, mentre lui, il marito-padre-patrigno-fuco, è solo una comparsa. È lei a governare, in un matriarcato di ferro che sembra una sopravvivenza delle origini della storia umana (vedi Bachofen) o che, al contrario, è il frutto di un neofemminismo postmoderno che si afferma con la forza della sua prorompente naturalità in un contesto di virilità indebolite e degradate. I due figli sono entrambi pugili, come si conviene ai maschi white trash che possono contare solo sui muscoli per farsi strada, avendo come uniche opzioni possibili il ring o la delinquenza (nei ghetti cattolico-americane, dice sempre Scorsese, c’è però un’altra possibilità, farsi prete). Dickie, il maggiore, ha avuto per un po’ una carriera brillante, una volta è riuscito perfino a mandare al tappeto il grande, bello, famoso, elegante pelle-d’ebano Ray Sugar Leonard (ma forse Ray era solo scivolato, non si sa), poi è finito malamente, tossico strafatto di crack, la droga peggiore, adesso è una larva umana, scheletrico, con i denti rovinati, gli occhi vagolanti come palle da ping pong. Micky, il minore, sembra più saggio di lui, non si autodistrugge, forse ha meno talento come pugile ma più determinazione, e una rettitudine di fondo che può salvarlo da quel mondo schifoso e portarlo fuori, portarlo lontano. Solo che la madre-matriarca che gli fa da agente e gli procura gli incontri e il fratello tossico, suo allenatore, lo mandano al massacro con pugili più grossi e forti di lui pur di intascare un po’ di dollari e rischiano di rovinargli la salute e la carriera. Micky però incontra la donna della sua vita, dopo un matrimonio fallito con una stronza che adesso ha traslocato in una zona bene e non gli fa vedere nemmeno la figlia, e la incontra nelle curve e nella grinta di di Charlene (a Lowell le donne se non hanno le palle non sopravvivono), una barista che ha studiato al college poi anche lei si è persa come molti in quel quartiere, in quella città. Charlene sottrae Micky al dominio della terribile madre Alice, lo spinge a scaricare il fratello tossico e a cercare un altro allenatore, e la carriera di Micky decolla. Ma è conflitto tra Clarlene e le femmine di casa, con Micky in mezzo, maschio conteso come un trofeo e insieme vittima di quella guerra. Riuscirà a sanare la frattura tra la donna che ha scelto e quelle erinni che si è ritrovato come madre e sorelle, reimbarcherà anche il fratello come allenatore, nel frattempo un po’ ripulito da un’esperienza in carcere dove gli hanno pure rifatto i denti (strana questa America che non ha un sistema sanitario gratis ma poi sistema la bocca con costosissimi impianti ai detenuti, mah, qualcuno per favore ci spieghi il mistero). Scelta non del tutto sballata, visto che il fratello sarà pure un relitto però è un genio della tattica sul ring e sa leggere i match come nessuno e dargli i consigli giusti su come prendere l’avversario. Difatti Micky da un match all’altro, uno più feroce dell’altro con tumefazioni, ferite e sanguinamenti e denti frantumati, arriva fino al titolo mondiale e al meritato trionfo.
Non basta però l’happy end a riscattare l’inferno precedente. Quello che abbiamo visto lungo tutto il film, la deriva del fratello, la determinazione ferina della madre nel difendere il suo territorio da altre intrusioni femminili (e maschili), il cinismo con cui Micky viene sfruttato dai suoi stessi consanguinei come pura carne da macello per portare a casa i dollari che devono provvedere al sostentamento dell’intero clan, tutto questo non si può dimenticare, e dunque l’happy end non è consolatorio, non può esserlo. Sono tutti a bordo ring quando Micky vince il titolo, Charlene accanto ad Alice, ma non c’è vera pace tra loro, è solo una tregua momentanea e strumentale perché a tutti, alla famiglia come alla nuova compagna, conviene che Micky vinca e guadagni e li tiri fuori dalla melma. Non ci sono luminose speranze in The Fighter, solo disincanto. David O. Russell riesce a raccontare una perfetta storia americana, una esemplare parabola sull’american dream, senza la minima retorica né squilli di fanfare, ed è un grande risultato.
The Fighter è anche un film di attori, tutti magnifici. Di Christian Bale, impressionante nell’aderire somaticamente al suo personaggio (quasi venti chili persi) si è già scritto tutto, e l’Oscar che gli hanno dato è più che meritato, è dovuto. Di fronte a una simile performance di furibonda, ossessiva identificazione nel ruolo secondo i vecchi e mai dimenticati comandamenti stanislawskiani da Actor’s Studio si resta ammirati e anche un po’ perplessi. Viene in mente la leggerezza e l’arguzia di Mastroianni che una volta, a chi gli chiedeva come facesse a preparare il personaggio e a calarsi dentro, rispose semplicemente: quando danno il ciak io incomincio a recitare, ecco tutto. Qualche volta a Hollywood e dintorni si dovrebbero ricordare anche di quelle parole di Marcello. Melissa Leo, già vista un paio di anni in Frozen River dove nascondeva cinesi clandestini nel portabagagli per farli arrivare dal Canada negli Stati Uniti, è la Madre, in una perfomance stratosferica che le ha permesso di strappare l’Oscar all’altra madre terribile dell’anno cinematografico, la Jacki Weaver di Animal Kingdom, anche lei nominata. Mark Wahlberg, colui che il film ha fortissimamente voluto, non ha vinto statuette, ma come Micky mette a segno la migliore interpretazione della sua vita, e certo ne ha fatta di strada da quand’era lo smutandato Marky Mark, come si faceva chiamare negli anni Ottanta ai tempi della sua famosa pubblicità dell’underwear Calvin Klein con tanto di provocatoria mano sul pacco. Gli tocca la parte più normale, e dunque di quelle che meno impressionano spettatori e giurati dei premi, però se la gioca con una sobrietà e una recitazione tutta interiorizzata ammirevoli. Amy Adams, infine, la forte Charlene che riesce a strappare il suo Micky dalle sgrinfie di quella famiglia delinquenziale (famiglia disfunzionale, direbbero le pessime psicologhe che concionano dai giornali femminili e dalle trasmissioni tv pomeridiane) e a farne un uomo solido e vincente: ecco, Amy Adams è la vera sorpresa. La ricordavamo pupattola e carina in Julie & Julia e principessina in Enchanted, qui è una carnosa proletaria, sboccata e belluina quando serve, in un rovesciamento spettacolare della sua immagine di attrice. Anche lei era candidata all’Oscar insieme a Melissa Leo come best supporting actress, e non ha vinto, non poteva vincere con la Leo. Però con The Fighter ha svoltato e fatto vedere di cosa sia capace. In questa sua voglia di scendere (attorialmente) negli abissi, di sporcarsi e misurarsi con la vita vera e ruoli ad alto realismo, ricorda la Ingrid Bergman che mollò Hollywood e il glamour dopo essersi innamorata di Rossellini vedendo Paisà e Roma città aperta, e si gettò senza pensarci nel neorealismo italiano. Senza quel suo gesto folle non avremmo avuto Viaggio in Italia, Europa ’51, Stromboli (e non avremmo avuto Isabella Rossselini). Non sappiamo se Amy Adams riuscirà a fare altrettanto, però intanto massimo rispetto per il coraggio che ha avuto nel lasciarsi alle spalle il glamour hollywoodiano e buttarsi in The Fighter.


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