Tutta colpa di Freud – seconda parte, Canale 5, ore 21,12.
Questa versione televisiva – di 30 minuti più lunga di quella uscita al cinema – viene mandata in onda in due puntate. Stasera in onda la seconda.Tutta colpa di Freud, un film di Paolo Genovese. Con Marco Giallini, Vittoria Puccini, Anna Foglietta, Claudia Gerini, Alessandro Gassmann, Vinicio Marchioni, Laura Adriani, Daniele Liotti.
Basta con la commedia provincial-vernacolare. Paolo Genovese dopo Una famiglia perfetta continua a esplorare la strada della moderna (e non becera) risata all’italiana. Con un padre psicanalista (Marco Giallini!) e le sue tre figlie dagli amori complicati. La lesbica delusa che vuol provare con gli uomini, la libraia innamorata di un ladro che non parla, la più piccola che sta con un uomo dell’età di papà. Il film è troppo lungo, i dialoghi non sempre il massimo, gli attori non tutti all’altezza. Comunque, nel suo primo weekend alc inema Tutta colpa di Freud ha fatto 2 milioni. Voto 6 meno.
Paolo Genovese, che con Una famiglia perfetta aveva provato una strada alla cine-commedi italica non piaciona, non corriva, non collusa coi gusti più facili e plebei delle platee, stavolta con Tutta colpa di Freud fa un passo indietro, visto il non clamoroso successo al box office di quel tentativo. Meno aculei, meno acidità e abrasività, un tono più paraculo e conciliante, con quella bonarietà da media commedia che non disturba e che blandisce lo spettatore e lo rassicura. Un film più carino, più medio, più digeribile del precedente, e difatti al primo weekend, nonostante la concorrenza del cingolato The Wolf of Wall Street, ha rastrellato i suoi due milioni di euro, che non son pochi. Operazione dunque riuscita, bersaglio colpito. Genovese, pur assecondando parecchio il pubblico, non rinuncia a realizzare una commedia diciamo contemporanea, non polverosa, non appassita, di temi e modi non provinciali, e ci prova pure a intercettare se non proprio i sommovimenti e le convulsioni attuali del corpo collettivo, almeno una qualche increspatura. Di nuovo si cala nei meandri delle famiglie di questa Italia a esplorare zone d’ombra, il nuovo e il vecchio, e spesso il vecchio travestito di nuovo, il cambiamento dell’italian family e, insieme, la sua inossidabile resistenza a ogni elemento dissolutore. Buttandoci dentro un bel po’ di modernismi, come la madre che ne va per ‘realizzare se stessa’ in una qualche ong in un qualche plaga diseredata del mondo e molla al marito le tre figlie, e le tre figlie allevate dunque da un babbo-mammo oscillante tra i due ruoli parentali, insieme genitore A e genitore B per usare l’orrido lessico della gender-culture. Figlie tutte con qualche problemuccio, legato perlopiù alle solite, sempiterne pene d’amore, nulla di tremendo per carità, solo quel tanto di difficoltà bastevole a montarci su una storia minimamente interessante. Certo quando vediamo Marco Giallini nella parte del padre psicanalista con tanto di barba alla Freud restiamo abbastanza perplessi, per non dire di più. Giallini analista? Poi ci si si abitua (dopotutto, ci si abitua a tutto, dicevan le solite vecchie zie), anche perché non è che lo vediamo esercitare così spesso, e quando esercita lo fa sdraiando sul lettino le tre figlie e un aspirante genero, il che non mi pare molto freudianamente ortodosso, e manco junghianamente. Tant’è che non si capisce perché Genovese gli faccia fare quel mestiere, che se era avvocato o funzionario in un qualche ministero sarebbe stato lo stesso, visto che il cuore della faccenda narrativa di questo film è un padre e le tre figlie, fate conto un Re Lear ma senza tragedie. Tre, ognuna con i suoi guai d’amore. La prima è lesbica desiderosa di sposarsi e accasarsi (a New York) ma, non appena mostra alla fidanzata l’anello, quella scappa, ‘non voglio legami, io non ti merito, tu meriti di meglio’ ecc. ecc. La seconda è una libraia che non vende un libro e non si capisce come faccia a pagare l’affitto del negozio, e che finisce col cadere in amore con un sordomuto che le ruba libretti d’opera. La terza, diciott’anni appena, se ne sta con un suo collega di anni 50 che neanche si decide a mollare la moglie. Intanto il papà, che da quando la consorte e madre delle tre rampolle lo ha mollato per l’ong, non ha più avuto donne (e neanche uomini, se è per questo), e smania e si strugge per una signora col cagnolino di cui nemmeno sa il nome (cit. cecoviana?). Le carte sono in tavola, i personaggi cominciano la loro partita, la lesbica stufa di essere mollata dalle donne vuol provare con gli uomini e chissà mai, la seconda cerca di imparare la lingua dei sordi ma non è mica così semplice stabilire un ponte, la terza farà molta più fatica del previsto a conquistare al cento per cento il suo cinquantenne. Genovese mette in gioco troppi personaggi, principali e collaterali, ingombra la narrzione di trame e sottotrame, incrocia le traiettorie e i destini ingarbugliando una mappa delle pulsioni e dei desideri già parecchio complicata di suo. Risultato, due ore e un quarto che francamente pesano e che potevano, dovevano essere ridotte a misura più umana e di commedia. Bisogna però ammettere che Tutta colpa di Freud ha il suo decoro. Certo è meno sofisticato e coraggioso di Una famiglia perfetta, ma sempre una spanna sopra la nostra media commedia, riuscendo ad astenersi dal becero vernacolismo e da varie sguaiataggini. Basta? No che non basta. Il plot confuso e a momenti astruso non è il solo limite. I dialoghi sono spesso fintissimi, sanno di pagina scritta e non tutti gli attori (non tutte le attrici) sono in grado di fluidificarli e renderceli credibili, di dar loro un suono di qualcche plausibilità. L’idea migliore, quella dell’innamorato sordomuto, naufraga e si autodistrugge nella tremenda scena della romanza doppiata sul palco con il linguaggio dei muti. Alla figlia lesbica tocca la parte dell’innamorata, come dire?, non convenzionale, portatrice della rupture e del nuovo all’interno della tradizione familiare italiana. Cosa peraltro assai presente nel cinema italian-popolare degli ultimissimi anni, e vorrà pur dir qualcosa. In Un fantastico via vai di Pieraccioni c’era una ragazza di ricca e non open-minded famiglia innamorata di un ragazzo black (italiano), in Indovina chi viene a Natale? di Fausto Brizzi abbiam visto la Cristiana Capatondi persa per un Raoul Bova senza braccia. Qui, a pensarci bene, è tutto l’amore delle tre figlie a essere un filo differente e scostato dalla cosiddetta media. Non solo la lesbica (che vuol diventare eterosessuale), c’è anche la libraia con il sordomuto, e la ragazzina con un uomo che ha l’età di papà, tanto per dare a Freud quel che è di Freud e a Edipo (o Elettra) pure. Alla fin fine la parte più divertente tocca alla figlia omosessuale, grazie anche a un’Anna Foglietta travolgente. Così anche noi, nel nostro piccolo, adesso c’abbiamo la nostra Vie d’Adèle. O, se volete, ognuno c’ha La vie d’Adèle che si merita.