Film stasera in tv: VENUTO AL MONDO (mart. 8 marzo 2016, tv in chiaro)

Creato il 08 marzo 2016 da Luigilocatelli

Venuto al mondo, un film di Sergio Castellitto con Penelope Cruz. Canale 5, ore 21,11.

Emile Hirsch e Penelope Cruz

Venuto al mondo, regia di Sergio Castellitto. Con Penelope Cruz, Sergio Castellitto, Emile Hirsch, Pietro Castellitto, Jane Birkin, Saadet Aksoy, Adnan Haskovic, Luca De Filippo, Mira Furlan. Sceneggiatura di Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto. Tratto dal romanzo Venuto al mondo di Margaret Mazzantini (ed. Mondadori).

Emile Hirsch è Diego

Una storia che perfino Carolina Invernizio avrebbe trovato eccessiva, dove nulla ci viene risparmiato: maternità difficili, bambini nati sotto le bombe, ricongiungimenti e agnizioni. Il tutto mentre infuria la guerra di Bosnia con cecchini, massacri di civili, stupri etnici e altre ignominie. La coppia Mazzantini-Castellitto non si nega e non ci nega nulla. Un film così viscerale, effettistico, turgido, scatenato da lasciare allibiti. Eppure con una sua rude efficacia. Un film che a un certo punto ti avvinghia e non ti molla più. Da detestare e amare. Voto (facendo la media tra il peggio e il meglio): 5 e mezzo.

Sergio Castellitto sul set con Penelope Cruz

Sergio Castellitto sul set con il figlio Pietro

Allora: facile, e anche sacrosanto, sparare su questo film. Un fosco melodramma insostenibilmente gonfio di cliché e retorica, con i dialoghi più imbarazzanti dell’anno insieme a quelli, altrettanto tremendi e pretenziosi, di The Words. Con, oltretutto, un personaggio – il sarajevino Goiko – che siccome fa il poeta, perdipiù forte bevitore, sentenzia non appena apre bocca e si esprime solo attraverso ardite metafore e simbologie e ricami linguistici che ti verrebbe voglia di entrare nello schermo e tirargli qualche sberlone. In tutto il film, in tutta la storia, c’è quell’eccesso, quel turgore, quella visceralità e corporalità che è dello stile Mazzantini romanziera, e qui amplificati ulteriormente dal ritmo a volte isterico della messa in immagini. Tutto è sovreccitato, tarantolato, oltre misura. Non bastasse, a rendere ancora più indigesto il già sovraccarico piatto c’è pure il furore balcanico (siamo a Sarajevo per gran parte del film, a Sarajevo prima, durante e dopo la guerra di Bosnia) di orchestrine fragorose e assatanate di ottoni urlanti, e spari, bombe, sbudellamenti, scannamenti, e intanto si canta, si balla, ci si ubriaca, ci si altera con tutte le sostanze alteranti come nei peggiori e più equivoci film di Emir Kusturica (penso ad Underground soprattutto). Ah i Balcani, signora mia, tanto caldi e passionali e pittoreschi quanto truci e assassini. Però. E però nonostante tutto, o proprio per quello, Venuto al mondo da un certo punto in poi ti risucchia dentro e non ti molla più, ti inabissa nei peggiori gorghi balcanici e romani che non ce la fai a uscirne e stai lì, ipnotizzato, colpaccio di scena dopo colpaccio di scena, da un climax all’altro, fino all’abiezione e alla rivelazione finale. Vergognandoti magari, ma stai lì. O almeno, così a me capitato, passando dallo sbuffo iniziale, dall’incazzatura alla resa, inerme, al troppo che mi esplodeva lì davanti sul telone bianco e mi ghermiva come i famigerati cecchini di Sarajevo. Se questo non è un guilty pleasure, ditemi voi cos’è un guilty pleasure. L’orrendo però ghiottissimo che non puoi non farti piacere, al di là di ogni ragionevolezza.
Non avevo letto il libro (però altro della Mazzantini sì, non sono proprio digiuno della sua scrittura) e dunque mi son trovato a seguire l’incredibile storia che perfino una Carolina Invernizio resuscitata nella peggio contemporaneità avrebbe avuto un qualche pudore, una qualche remora a inventarsi e raccontare. Ne succedono di ogni, ma per davvero. L’asse narrativo portante è il desiderio ossessivo di maternità e la venuta al mondo parecchio complicata di un figlio (vorrei far notare che il tema della ricerca di un figlio a qualunque costo è sempre più presente nel cinema, e nello spazio di qualche settimana l’abbiamo trovato prima in Tutti i santi i giorni di Virzì, adesso in questo Castelitto-Mazzantini e, incredibilmente, perfino tra le pieghe della farsaccia Vicini del terzo tipo). Sembra davvero di tornare all’Ottocento dei fogliettoni più scatenati e impudichi con le lore storie pulp-popolari di trovatelli, figli della colpa, figli persi e figli ritrovati, figli di troppo chiare origini e figli di oscure origini, e poi agnizioni, invocazioni, “figlio mio!”, “madre!”. Una vera goduria, questo Venuto al mondo (un titolo che già contiene tutto il film), così sfrenato da sembrare a tratti già autoparodistico, e verrebbe voglia di vederlo subito ripreso a teatro da Paolo Poli. Ma anche, una volta ingranato le marce, assolutamente irresistibile, e sfido chiunque a trattenersi in sottofinale e finale dalla lacrime, perciò se ci andate non  dimenticatevi la scorta di kleenex. Certo, Mazzantini & Castellitto hanno l’accortezza di contemporaneizzare con astuzia e mestiere l’archetipo narrativo del “venuto al mondo”, mescolandolo alla guerra di Bosnia, vale a dire quanto di più sconvolgente sia capitato a questa Europa nel secondo Novecento. La guerra. La guerra vera. La guerra con le sue atrocità indicibili, qui, alle porte di casa nostra, a un tiro di schioppo dalle nostre tranquille coste adriatiche. Qualcosa che ha infranto per sempre la nostra illusione di un’Europa definitivamente pacificata, lontana dal rischio del conflitto, ormai immunizzata rispetto all’homo homini lupus. Invece no, Sarajevo ci ha dimostrato che l’abisso è sempre stato lì e bastava, basta un niente per cascarci dentro. Venuto al mondo si muove su due diversi piani temporali, l’oggi (più o meno) a Roma, e un ieri che svaria tra i primi anni Ottanta e gli anni Novanta, il periodo che va da poco prima delle Olimpiadi invernali di Sarajevo (1984) alla guerra. Sicché la protagonista Penelope Cruz deve coprire un arco temporale molto largo, apparire se non invecchiata, certo donna matura oggi, e ragazza o poco più ieri. Attrice scafata com’è, una che ha saputo passare dal cinema d’autore europeo a quello americano (Woody Allen) al cinema mainstream hollywodiano, se la cava in un ruolo a tratti quasi impossibile e perfino imbarazzante. Però, Dio mio, perché l’hanno imbruttita così da quarantenne e qualcosa, con un taglio di capelli punitivo che nessuno pratica più neanche nelle più sperdute parrucchierie di villaggio, una roba da orfana anni Cinquanta, e sembra di rivederla nel film che fino a questo l’aveva (fisicamente) più castigata, Carne tremula di Almodovar, dov’era un ragnetto, uno scorfanetto che partoriva in una livida Madrid franchista. Solo come Gemma giovane (Gemma è la protagonista) ha un po’ di quel fulgore, di quella muliebre carnalità che l’ha fatta diventare in America il sex symbol mediterraneo erede delle nostre Lollo e Loren. A riprova che la Cruz è una mutante, capace di tasformismi e mimetismi fisici impressionanti, una funambola psicosomatica, e non so se sia o meno una qualità. Allora: siamo a Roma, oggi (più o meno). Gemma, sposata con un rassicurante ufficiale dei carabinieri (Sergio Castellitto, chi se no?), conduce una tranquilla vita medioborghese con lui e il figlio Pietro, un lungagnone poco meno che ventenne un po’ scorbutico come tutti i suoi coetanei (lo interpreta bene Pietro Castellitto, il figlio di Sergio e Margaret Mazzantini). Arriva una telefonata da un tale Gojko, da Sarajevo: ‘Gemma, perché non torni qui? Stiamo preparando una mostra delle foto di Diego’. Cambia di colpo la faccia di Gemma/Penelope, e intuiamo subito che un qualche mistero là ci dev’essere. Lei parte (in traghetto) per la costa dalmata e poi a Sarajevo, portandosi dietro, e man mano capiremo il perché, il riluttante figlio Pietro (‘mamma, perché mi hai portato in questo schifo di posto, che i miei amici son tutti a sguazzare in Sardegna adesso?’, ed è una delle battute che si ricordano del film, quasi la radiografia di una generazione). Ecco, siamo pronti per la Grande Narrazione, con su e giù nel tempo, l’andirivieni tra l’oggi, l’ieri e l’altroieri. A poco a poco, a frammenti, la storia comincia a comporsi. Gemma a Sarajevo nell’84 aveva conosciuto, oltre che una nutrita compagnia di amici locali (il suddetto Gojko, poeta, più musicanti, intellettuali, altri artisti, tutti di etnie diversi, tutti felicemente coabitanti nella stessa città cristiana e musulmana), il fotografo americano Diego – è l’Emile Hirsch appena visto in Killer Joe -, ragazzo survoltato e agitato, sempre in preda a una frenesia esistenziale da gioventù bruciatissima, ansioso di testimoniare con la sua Nikon tutti i mali e i dannati della terra (‘domani parto per un reportage sui bambini delle miniere brasiliane’), con un passato discretamente disastroso, compresa la dipendenza dura da eroina. Lui le fa la corte, la conquisterà definitivamente a Roma, ricevendola nel suo barcone sul Tevere (e già questo, signora mia, è puro fotoromanzo). Gemma resta incinta, ma perde il bambino, finché non arriva l’atroce responso: è quasi totalmente sterile, le probabilità che diventi madre sono bassissime. ‘Ma siamo a Roma, i miracoli possono succedere’: difatti l’abbiamo vista a inizio film con il figlio Pietro già grande. Solo che le cose si riveleranno assai più complicate e tormentate. Ritorno a Sarajevo di Diego e Gemma nei momenti peggiori della guerra e dell’assedio, anche perché, ovvio, lui vuol riprendere con la sua camera la Storia, per quanto tragica, nel suo farsi. Ma lì ne succederanno di ogni alla nostra coppia. Una ragazza del gruppo, Aska, si offrirà di fare un figlio con Diego per poi darlo a Gemma, ormai ossessionata dalla sua maternità impossibile. E la scena di Gemma e Aska che si abbracciano e Diego che ballando si avvcina alle due per stringerle e formare il triangolo è un vertice kitsch dunque cultistico impagabile, con una Cruz che per sopravvivere a un momento così imbarazzante deve ricorrere a tutto il mestiere maturato con Almodovar. Quello che segue meglio non dirlo, perché è precisamente l’essenza melodrammatica di questo imbarazzante e insieme ipnotizzante film. Si passa da una scena madre all’altra, mescolando sfacciatamente drammi privati a quelli della Storia. Gente sparata dai cecchini, stupri etnici, sarabande infernali e sadiche di serbo-bosniaci ebbri di alcool e sangue, luoghi concentrazionari, stragi di civili. L’inferno, veramente. Finora i film che hanno riproposto la guerra di Bosnia non hanno sfondato, anzi sono stati proprio rigettati dal pubblico, vedi il pur buono In the Land of the Honey and Blood che ha segnato il decorosissimo esordio registico di Angelina Jolie, un disastro al box office americano e mai arrivato in Italia (la mia recensione dal festival di Berlino 2012), vediamo se Venuto al mondo riuscirà a invertire la tendenza. L’impressione è che l’Occidente non ami riflettersi in questa guerra così vicina, così propria, dove non è possibile ricorrere ai filtri distanzianti che si sono usati o si continuano a usare nella rappresentazione e percezione di conflitti lontani come Iraq, Afghanistan o come fu a suo tempo il Vietnam. Certo che anche in questo film ci si muove su luoghi comuni. Ci viene raccontatata la solita storia della felice Sarajevo prebellica luogo di convivenza tra etnie e popoli diversi, un’età dell’oro rovinata da un conflitto scatenato da pochi fanatici. Ma insomma, possibile che sia bastata la dissoluzione della Jugoslavia titina per scatenare i demoni? non è che quei demoni erano sempre stati vivi e pronti a colpire, solo nascosti sotto una sottile verniciatura di forzata convivenza pacifica? Ma questo è un mélo, che procede per semplificazioni, per facili coppie di opposti e anche con una certa qual rozzezza ideologica, qui i buoni di là i cattivi, prima il bene poi il male, prima la pace poi l’apocalisse, punto. A Mazzantini-Castellitto (i coniugi mi sembrano così solidali in questo lavoro che me li immagino come un autore solo) importa l’urlo, il turgore drammatico e tragico, il colpire alle viscere lo spettatore, mica redigere un trattato di storia contemporanea. Devo dire che, nonostante tutti i limiti di un’operazione a tratti imbarazzante, l’obiettivo è raggiunto. Dapertutto spira un’aria di famiglia. Non solo Mazzantini e Castellitto, moglie e marito, sono co-autori del film, ma il loro il figlio Pietro interpreta il figlio della Cruz (e anche il personaggio si chiama Pietro: cosa vorrà mai suggerirci Mazzantini con questa sovrapposizione-identificazione?). Anche la Cruz lavora in famiglia e si porta dietro il fratello Eduardo, che di Venuto al mondo firma le musiche. Italia o Spagna, sempre in famiglia siamo. Onore a Jane Birkin in un cameo che una volta si sarebbe detto intenso come psicologa che si occupa di adozioni. Vale la pena ricordare che il film non è stato presentato in nessuno dei nostri festival, non Venezia e neppure Roma, ma dato in prima mondiale a Toronto, con il titolo Twice Born, ‘Nato due volte’, e un lancio internazionale che rivela l’ambizione di film rivolto a un mercato globale. Le ambizioni, soprattutto per il cinema italiano, sono le benvenute, e però bisogna dire che le recensioni con cui è stato accolto dalla stampa nord americana non sono state trionfali, anche se non negative. Non è piaciuta la coppia Emile Hirsch-Penelope Cruz: no chemistry, ha sentenziato qualche critico, non senza ragione. In effetti, in certe sequenze lui sembra il figlio, mica il marito-fidanzato.