Film stasera sulla tv in chiaro: LA BANDA DEI BABBI NATALE (sabato 21 dicembre 2013)

Creato il 21 dicembre 2013 da Luigilocatelli

La banda dei Babbi Natale, Canale 5, ore 21,11.
Ripubblico la recensione scritta all’uscita del film.

La banda dei Babbi Natale, di Paolo Genovese. Con Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Angela Finocchiaro, Giorgio Colangeli. Italia 2010.
Poi dicono che Zio Boonmee del thailandese Apichatpong Weerasethakul era noioso. Ma se era scoppiettante a confronto di quest’ultimo film del premiato trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Prima parte micidiale, più macchinosa di una messinscena ronconiana, più insostenibile di un Dogma-movie danese.

Avete presente Zio Boonmee? Anzi, Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti? Intendo, il film thailandese dell’impronunciabile Apichatpong Weerasethakul che s’è portato via all’ultimo Cannes la Palma d’oro tra i buuh del pubblico e di parecchi critici. Zio Boonmee, che passa per essere il film più lento, micidiale, inguardabile, insostenibile, il film più anticinema degli ultimi dieci anni se non di più. Ora, a parte che a me è piaciuto parecchio e non mi ha annoiato per niente, ricordo che quando l’ho visto qui a Milano alla rassegna dei film di Cannes metà dal pubblico ha lasciato esasperata la sala prima della fine. Bene, credetemi, quanto a lentezza il film di Apichatpong Weesathekul non è niente a confronto del soporifero La banda dei Babbi Natale del premiato trio Aldo, Giovanni e Giacomo, o almeno rispetto alla sua prima parte: micidiale, un treno che è sempre lì per partire e non parte mai. Zio Boonmee ha fatto il vuoto, appena lo nomini la gente si mette a urlare. Invece la gente, adesso, fa la fila per vedere il film di AG&G, a Milano di gran lunga il migliore incasso del weekend, molto, molto più avanti del cinepattone Natale in Sudafrica e di The Tourist (i numeri: La banda dei Babbi Natale 128.007 euro, Natale in Sudafrica 56.263 euro). Intendiamoci, i tre sono comici di vaglia, sanno essere sottili e garbati e non sono mai (quasi mai) corrivi, la loro è una comicità nobile della nobile tradizione milanese del cabaret, molte gag fanno sorridere e il film fa (ogni tanto) ridere. È che ci sono dei problemi, come si usa dire, strutturali.
Il primo problema: loro sono in tre, mica uno, il che significa che nel film si devono dividere spazio, battute, minutaggio e quant’altro col Manuale Cencelli, in modo che nessuno prevalga-prevarichi sugli altri, che non sarebbe democratico e invece i tre, lo si capisce subito, sono per l’assoluta parità dei diritti, innanzitutto al proprio interno. Ottimo, peccato che questo ai fini dello spettacolo diventi una zeppa. Difatti la storia di La banda dei Babbi Natale non è una ma trina, una per ognuno dei tre, più una quarta che le raccorda e le unifica, sennò come si fa a tenere insieme il tutto? Questa quarta è la storia dei tre amici che giocano insieme a bocce col nome di The charlatans, un team che da anni cerca di vincere una coppa e la perde regolarmente alla finale. Ognuno dei tre ha la sua specialità, c’è chi il pallino lo sfiora, chi lo bacia, chi lo spacca e lo sboccia. I tre sono diversi ma si integrano perfettamente. Ragazzi, capito la metafora? Qui si allude, eccome se si allude, al team degli stessi AG&G, che difatti tanto per togliere ogni dubbio residuo danno ai personaggi del film i loro veri nomi e cognomi. Dentro alla storia di raccordo ci sono poi quelle di ciascuno dei tre. Capite che una struttura narrativa di questo tipo è più macchinosa di una messinscena di Luca Ronconi, di un’Orestea di dodici ore di Peter Stein. Nessuno sopravviverebbe a un handicap del genere, e difatti i nostri tre soccombono, anche se con onore e con il molto mestiere che bisogna loro riconoscere. Oltretutto, delle tre storie due sono inconsistenti (quelle di Aldo e Giacomo: sequenze sconnesse di gag più o meno riuscite), una sola sta davvero in piedi ed è in grado di generare qualche situazione comica, quella del veterinario bigamo Giovanni diviso tra una famiglia milanese (comprensiva di gorilla) e una di Lugano, una storia magari già vista ma che ricorda la solidità di certi copioni di Sonego-Scola-Maccari-Age-Scarpelli per il Sordi anni Sessanta.
Veniamo al secondo problema: AG&G parlano troppo, parlano lento. La loro è una comicità verbale che ha bisogno di molte parole e di parecchio tempo per innescarsi, è un congegno che esplode solo dopo che si è consumata una lunga, lunghissima miccia, e questo (sempre moltiplicato per tre) rende il film a tratti esasperante. Verrebbe da dire: tagliare, sveltire, raddoppiare la velocità. Parlare di meno. Ricordare quello che Allan Dawn, regista a Hollywood dagli albori del muto fino agli anni Cinquanta, disse a Peter Bogdanovich che lo intervistava per il suo gran libro Chi ha fatto quel film? (appena ripubblicato in Italia da Fandango): “Due persone che parlano sono la morte del cinema, grande lezione appresa dal cinema muto” (cito dal pezzo di Mariarosa Mancuso sul libro di Bogdanovich pubblicato sul Foglio di sabato 18 dicembre a pagina III). Poi, dopo aver tagliato qualche parola di troppo, per favore puntare su una storia portante, non su tre fragilissime che si stampellano l’un l’altra non potendo nessuna stare in piedi da sola.
Nella seconda parte di La banda dei Babbi Natale, quando i treni di tutte e tre le storie pur sbuffando sono riusciti a mettersi in marcia e a raggiungere qualche stazione, il film migliora, anche se non prende mai quota davvero. L’idea dei tre che si travestono da Santa Claus per penetrare in un appartamento (non riveliamo il perché) e che vengono arrestati proprio la notte di Natale, non è malvagia. Al trio non difetta nemmeno l’abilità di tenere in mano tutti i fili del complessissimo intreccio e di dipanarli quand’è il momento, è che la soluzione sembra non arrivare mai, e quando arriva si è troppo prostrati per divertirsi davvero. L’assembramento con tanto di rissa al commissariato è una buona conclusione, ricorda il vecchio (1954) Accadde al commissariato di Giorgio Simonelli e soprattutto il ciclonico e caotico finale davanti al giudice di Ma papà ti manda sola?, guardacaso proprio di Peter Bogdanovich. Milano è ben fotografata, si vede che i nostri tre le vogliono bene, anche se certe location sono inattendibili (la dottoressa che lavora in ospedale con Giacomo abita in una via del vecchio centro che assomiglia molto a via Bigli, ma vi pare possibile? per avere casa da quelle parti bisogna essere almeno stilisti. Almeno). C’è il mito eterno della Svizzera sognata e idealizzata come vero Nord dove tutto funziona e tutto è pulito, mito tenacemente coltivato in certa Lombardia, in particolare nel varesotto e nel comasco (e mi pare che Giacomo sia varesotto). Nessun personaggio femminile riesce ad andare oltre il ruolo di moglie e donna di. Anzi, ce ne sarebbe uno, quello della suocera di Giovanni interpretata da Mara Maionchi, che però è di una tale sguaiataggine che meglio avrebbero fatto a risparmiarcela. Confesso che sono stato tentato di scappare dal cinema prima della fine, non mi capitava da anni. Ma forse sono io che sono fatto più per i film thailandesi che per i comici milanesi.
P.S. Mi rendo conto di non aver mai parlato di Angela Finocchiaro, che è la commissaria di polizia costretta la notte di Natale a non stare in famiglia per interrogare i tre arrestati. Rimozione freudiana la mia, ma dovuta a cosa? È che il suo personaggio è appena abbozzato, giusto quel tanto che serve a mascherare il fatto che si tratta solo di una pura e nuda funzione narrativa. Finocchiaro è colei che dirige il traffico dei tre protagonisti, toglie e dà la battuta, rende possibile a ciascuno di raccontarsi. È un perno narrativo, un espediente, ma i personaggi sono altra cosa, hanno consistenza e vita propria, il suo mai.


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