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Film stasera sulla tv in chiaro: THE IRON LADY, Oscar a Meryl Streep (ven. 11 apr. 2014)

Creato il 11 aprile 2014 da Luigilocatelli

The Iron Lady, Rai 3, ore 21,08.
Ripubblico la recensione scritta all’uscita del film in sala.
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Questo biopic di Margaret Thatcher rischia di non piacere a nessuno, anche se non è così male. Gli anti-thatcheriani lo troveranno troppo accomodante verso la signora, i thatcheriani (che in Italia sono pochi) non apprezzeranno di vederla ritratta come una vecchina in preda a demenza senile. C’è da discutere intorno a questo film. Però su Meryl Streep tutti d’accordo: mostruosa, capace di restituire la Thatcher in ogni dettaglio. La domanda non è: merita l’Oscar? ma: come faranno a non darglielo?
84218_galThe Iron Lady, regia di Phyllida Lloyd. Con Meryl Streep, Jim Broadbent, Olivia Colman, Alexandra Roach, Harry Lloyd. Voto: 6 e mezzo
Temo che questo film non sarà giudicato da stampa e spettatori per quello che è, e per quello che vale o non vale, ma sulla base delle simpatie o antipatie politiche (e anche dei pregiudizi) nei confronti della donna di cui racconta vita e opere, Margaret Thatcher. Una per cui il titolo di Signora d’accaio non è per niente usurpato. Temo pure che The Iron Lady non piacerà davvero a nessuno, anche se tutti elogeranno l’interpretazione acrobatica di Meryl Streep per non doversi pronunciare e scoprire più di tanto sul resto. Non piacerà agli antithatcheriani, la stragrande maggioranza, che troveranno questo biopic della signora già primo ministro d’Inghiterra dal 1979 al 1990 troppo assolutorio verso colei che pensano sia stata una sciagura per il suo paese, anzi per l’intera umanità. Per dire l’odio antithatcheriano, sì, odio è la parola giusta, odio cieco: quando ci fu la storia delle lacrime della nostra ministra Fornero io, come qualche centinaia di migliaia di altri, dissi la mia su facebook scrivendo che quelle lacrime non mi sembravano molto istituzionali e che una come la Thatcher mai sarebbe incorsa in una simile debolezza. Figuriamoci. Venni subito rimbrottato e accusato di simpatizzare per la demoniaca lady e un’indignada arrivò a urlarmi (si può urlare anche su fb) che la Thatcher è un’assassina e dovrebbe essere processata per crimini contro l’umanità per via della guerra delle Falkland e aver lasciato morire in carcere Bobby Sands. Questo, signori, è l’abbastanza comune sentire nei confronti di quella donna. Come pensate che sarà accolto dai suoi ostinati e coriacei detrattori (nemici) un film come The Iron Lady che ha sì dei difetti, tanti, ma non quello di dipingerla come un mostro? Ma non saranno soddisfatti nemmeno i thatcheriani, credo nel nostro paese una sparuta minoranza abitante chissà quale remota nicchia ecologica. Non gli piacerà vederla ritratta per gran parte del racconto nel modo in cui si è ridotta negli ultimi anni, una ottuagenaria dalla mente offuscata dalla demenza senile, causata non da Alzheimer ma, se ho ben capito, da ripetute ischemie cerebrali. Immagine assai lontana da quella consegnata alla storia della prima ministra con le palle che non si piega mai, quella che trattava i suoi ministri e fors’anche il suo paese con il piglio di una nanny inflessibile e un filino sadica. Le prime scene di The Iron Lady spiazzano. Vediamo una vecchina fragile e spersa in un supermercato a comprare il latte, nessuno la riconosce per la ex Iron Lady, con quel soprabituccio e il foulard a coprirle la celebre, iconica messinpiega. A casa la scopriamo circondata e sorvegliata da badanti e servitù, mentre la sua mente vagola, neuroni e sinapsi si spappolano e la fanno vivere in uno stato di allucinazione quasi permanente in cui crede di vedere-parlare con il marito, morto qualche anno prima ma della cui scomparsa lei sembra inconsapevole. Una vecchia qualsiasi, anche peggio messa della media. Chissà se l’autrice della sceneggiatura Abi Morgan, la stessa di Shame, ha visto Taurus, il film di Alexander Sokurov sugli ultimi giorni di Lenin malato e rinchiuso in una dacia. Le analogie sono impressionanti. Anche in Sokurov c’è un politico che fu grande ma che non ha più niente di quel glorioso passato, un omino qualunque dalla salute sempre più precaria che solo raramente, in qualche raro bagliore di lucidità o di rabbia o di orgoglio ritrovato, torna a somigliare al leader che è stato. Niente di nuovo, in fondo. Raccontare i grandi uomini e le grandi donne attraverso i fatti minimi, spogliandoli della loro statura pubblica per ricondurli alla loro quotidianità e anche miseria privata, è gioco vecchio non solo del cinema, ma della letteratura, della memorialistica. Il Napoleone in ciabatte descritto dal suo valet de chambre Louis Marchand resta il prototipo di queste operazioni di demolizione, o ridimensionamento, del mito. Però in The Iron Lady questo approccio al personaggio alla fin fine funziona, è anzi quello che ne fa qualcosa di diverso dal solito biopic e lo tiene lontano sia dalla piattezza didascalica televisiva sia dall’agiografia. Sicchè la narrazione si struttura attraverso più piani temporali, un presente con Margaret Thatcher declinante e in preda alla demenza, e i flashback che ci raccontano della sua vita passata pubblica e privata, e la ricostruiscono in una sequenza cronologicamente abbastanza ordinata e lineare. Più il piano allucinatorio dei suoi dialoghi con il marito defunto Denis Thatcher (il cognome lo prese da lui; lei, figlia di un comune droghiere, si chiamava Roberts). Una struttura che funziona piuttosto bene, anche se con parecchi punti deboli. Il primo, il maggiore, è lo spazio eccessivo dato ai dialoghi immaginari con Denis che deviano pericolosamente il film verso il ritratto di un caso clinico, il secondo è il meccanicismo psicologista con cui si innescano i ricordi del passato, che poi è quello solito della madeleine proustiana, solo che il congegno da allora è stato replicato e freudianizzato infinite volte sino a renderlo impraticabile. Non si può proprio guardare questa Thatcher in demenza che, stringendo un bottone sberluccicante tra le mani, si ricorda di quel vestito indossato a palazzo (segue flashback), e via con l’avanti-indietro innescato da un oggetto, un cibo, un profumo. Per il resto, il film si lascia guardare e ripercorre non male una vita che è una grande vita, piaccia o meno. Le origini piccolissimo borghesi, mai rinnegate e sempre orgogliosamente rivendicate davanti ai suoi smorfiosi colleghi di partito, in una famiglia di bottegai Tories che le instillarono da subito la voglia di fare da sè, il culto dell’individuo e della libertà, e quella visione liberista e antistatalista che l’avrebbe poi guidata nella sua parabola politica. I primi passi, difficili per una donna, e per una donna che veniva dal basso e non dall’high class, nel partito conservatore. L’incontro, decisivo, con Denis Thatcher, che le sarà sempre (quasi sempre) marito devoto, disposto a stare nell’ombra di quella moglie così imperiosa e ingombrante. Il rapporto tra i due è tra le cose migliori del film, si rivaluta la figura di lui, che seppe stare al posto suo con molta dignità e pure allegria. Qualcosa, molto di più di un principe consorte. Seguiamo Maggie su su fino alla conquista della leadership del partito, alla vittoria delle elezioni, alla conquista del premierato nel 1979. La rivoluzione era incominciata. Perché Maggie Thatcher osò l’inosabile, e dopo decenni e decenni di dominio in Occidente del welfare e del keynesianesimo, la visione di uno stato stretto regolatore dell’economia e dei rapporti sociali, riportò in Inghilterra il liberismo e il primato dell’individuo sul sociale predicando il ritiro dello stato. Sarà meglio ricordare che fu lei la prima, che Reagan sarebbe arrivato dopo (fu eletto presidente nel 1980) e che il ribaltone liberista porta il marchio Thatcher. Potrà non piacere quella donna, ma impresse al paese suo e a tutto l’Occidente (non l’Italia, però) una svolta epocale. Il resto della sua vita più o meno lo conosciamo, e il film ce lo ricorda. L’attentato Ira all’hotel in cui si teneva il congresso dei Tories. La dura lotta, vinta, con i minatori in sciopero dopo la chiusura delle miniere da lei giudicate improduttive e zavorra economica. La deregulation e l’impulso dato all’attività privata. La guerra contro l’Argentina dopo l’invasione delle Falkland/Malvinas (e l’ordine di affondare una nave nemica con più di quattrocento persone a bordo: tutti morti). Le resistenze contro l’unione europea. I militanti dell’Ira lasciati a morire in carcere per sciopero della fame. Fino a quando il suo regno, com’era naturale, si dissolse a causa della sua eccessiva arroganza, di qualche errore politico, di una congiura di palazzo. Però che storia, che donna. Ma adesso bisognerà pur parlare di Meryl Streep e della sua interpretazione. Una mia amica l’ha definita una performance da circo. Sì, questa Streep/Thatcher ti lascia a bocca aperta come un trapezista che si cimenti in esercizi impossibili sopra l’abisso, come un giocoliere che sembri annullare ogni legge di gravità, come un contorsionista che si faccia beffe di ogni vincol0 della fisica. Un lavoro di mimesi impressionante. Make-up e capelli assolutamente identici all’originale, di cui lei riprende ogni pur minimo tic (quel guardare di sottecchi, quell’impercettibile alzare il mento), e vedendo il film in VO si può notare l’incredibile lavoro fatto sulla voce, prima e dopo la trasformazione. La Thatcher aveva una voce troppo stridula che i suoi image maker e spin-doctors giudicarono inadatta a sedurre le masse, sicchè dovette rieducarla (e la scena sembra una citazione o forse una parodia del Discorso del re), e Meryl Streep è così mostruosa da rendere sia il prima che il dopo. Brava. Troppo brava. Inquietante. Questa sua capacità di essere un’altra persona, un’altra donna, quasi di rubarle l’anima, o di farsi possedere dalla sua anima, ci fa capire che il mestiere d’attore ha a che fare con l’abisso e l’oscurità, e ha qualcosa di sacro, di sciamanico che seduce e fa paura. Mi viene in mente Vittorio Gassman che amava spesso ricordarci come un tempo gli attori venissero sepolti in terra sconsacrata extra moenia. Quanto all’Oscar, cui Streep è appena stata nominata, come faranno a non darglielo? Con che coraggio un’altra potrebbe salire su quel palco a ritirare la statuetta al posto suo?


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