"Miami vice"/id.
di: M. Mann
con: C. Farrell, J. Foxx, G. Li
- Ger/USA 2006 -
135 min.
Se il noir e' stato spesso chiamato in causa per illustrare i mutamenti di orizzonte, gli scarti e i lati più oscuri della società occidentale contemporanea, Michael Mann - nel caso con "Miami vice", anche e soprattutto per il consolidarsi nel tempo delle sue insolite vie di fuga - ha conquistato "sul campo" lo status di testimone fra i più attendibili. Se il Male ha vinto, infatti, Mann lo sa. E lo sa a tal punto che non deve nemmeno fingere di voler rinnovare le regole di uno dei generi americani per eccellenza: il poliziesco. Gli e' sufficiente depurare una sua intuizione datata anni '80 della crosta "glam" e far prevalere sulla narrazione classica una fluida successione di eventi, ovvero abbandonare la Storia e lasciare che la Modernità faccia il suo corso fino in fondo. Che la Storia come concatenazione di episodi che si succedono in vista di un fine fosse una trama quasi del tutto logora era noto a Mann sia dai tempi di "Heat" (1995) - tentativo liminale di affresco orchestrato da due individui ossessionati dalla precisione, dal lavoro-ben-fatto - e aveva mostrato la profondità delle sue crepe nel cupo e sottovalutato "Collateral" (2004), prova generale (nonostante il ruolo ancora "attivo" del killer Tom Cruise impegnato, sullo sfondo di una città gelida e ostile, in una "missione da compiere") della definitiva messa in scena di un mondo le cui logiche e i cui equilibri non sembrano dipendere più dalla volontà umana. In "Miami vice" tutto questo viene dato per scontato, come e' ovvio che lo scopo ultimo delle azioni e' la perpetuazione del meccanismo che le rende possibili, nel caso il gioco del gatto col topo tra i detectives Farrell/Foxx della narcotici di Miami e l'onnipotente/onnipresente cartello del narcotraffico, così inafferrabile ma al tempo così integrato in ogni piega della società da sembrarvi connaturato. In definitiva il Male e' proprio questo: la constatazione di un arretramento di ciò che e' umano di fronte all'ingranaggio accumulazione/distruzione che controlla tutto, prevede tutto, dall'alto di una razionalità infallibile in rapporto alla quale l'uomo si riduce ad esecutore o viene schiacciato...
Dall'una come dall'altra parte di barricate in fondo fittizie (chi può dire - dire davvero - dove finisce il Potere Economico, quello Politico, quello dei Media e comincia il Crimine ?) si agisce non in forza di valori astratti - la legalità, la giustizia o il potere, il successo - o per slanci individuali - l'onesta, la lealtà, la convinzione di operare in difesa di principi condivisi; così come la mera avidità, il desiderio d'imporsi purchessia, il gusto del rischio - ma per un'inerzia affine alle oscillazioni del pendolo per cui a dei protocolli, a delle procedure, a degli schemi (le indagini sotto copertura, la necessita' di stratificare i livelli di segretezza, il coordinamento delle forze, per i "Buoni"), se ne oppongono degli altri (l'estrema sofisticazione tecnologica, la spietatezza dei rapporti interni ai clan, la capacita' di penetrare qualunque mercato, per i "Cattivi") e la differenza e' data non dalle montagne di dollari o dai morti lasciati sul terreno ma dalla certezza che a questo sistema, giunto ad una quadratura pressoché assoluta, non c'è più alternativa. Se "Buoni" e "Cattivi" sono forse sempre state definizioni di comodo, qui diventano addirittura notazioni accessorie: l'"umano" e' stato scalzato da anni ormai; quantomeno non sta più al centro delle questioni che contano. Ora il ritmo delle cose e' scandito da un cuore artificiale assemblato con gl'intrecci infiniti delle quotazioni di Borsa, con la precisione asettica dei computer, con le informazioni a copertura globale: cuore che più batte, più si espande, più esclude il resto. Non e' un caso, allora, che si parli poco in "Miami vice", e per frasi in genere brevi e stereotipate. A guardar bene, si spara anche poco, il che e' singolare in un film americano di "poliziotti e banditi". La violenza e' strettamente necessaria, puro mezzo di eliminazione degl'intoppi, ago della bilancia. Scarseggia la spettacolarizzazione, quindi. Del tutto assente e' il compiacimento. Più di ogni altra cosa, ci si adatta alla prassi e quando arriva il momento, si reagisce. Durante le attese, gli uomini si muovono in ambienti sempre o troppo rumorosi o troppo spogli. Si guardano di rado, dialogano ancor meno. Digitano sui terminali, maneggiano cellulari, riempiono sacche in fetta, controllano armi. Vestiti di tutto punto in abiti costosi, sono a disagio: e' l'implacabilità del pendolo. Le sue ragioni non lasciano spazio per altro.
Film dentro ai tempi al punto da essere inattuale, "Miami vice" supera il nichilismo di tanto cinema finto polemico e guarda al reale come automatismo "perfetto" e inesorabile in cui non ci sono più valori da negare ma in cui si può solo funzionare, e chi non funziona o non fa testo o viene travolto. Cosa resta, allora ? L'attrazione, dice Mann, il grado zero della sensibilità: il corpo. Quegli istanti - lucrati ad un apparato a suo modo completo e autosufficiente - in cui i corpi si cercano, si toccano, si ostinano a dire che non tutto e' vano. E di odori e di pelle, di fatto, si nutre la liaison Farrell/Li, brutale e autentica, per quanto nata già con la data di scadenza incisa sopra: estenuazione di una fine che, pur eternamente al lavoro, ha risacche di sapore dolce, prima che il gelo "razionale" del mondo si richiuda per sempre e anche l'inatteso di un incontro finisca tra le varianti prevedibili di un gioco senza scampo.
("Miami vice", venerdì 13/09, IRIS, ore 21 ca.)
TFK