C.S.e Francesco Mammarella
Un limite facile da oltrepassare
Dagli anni Novanta in poi, le video installazioni del video artista britannico Steve Mcqueen sono sempre state caratterizzate per un allestimento molto neutro e minimale. Grandi proiezioni su parete bianca o nera, massimo due per sala, in modo di immergere e coinvolgere totalmente lo spettatore. L’immagine è l’unica cosa che conta, l’idea è mettere in discussione la sua potenza,in molti casi tanto da annullare il sonoro, strumento che renderebbe piú facile il raggiungimento dell’obiettivo e forse banalizzerebbe il tutto; Current del 1999 e Running Thunder ne sono un esempio, video muti in 16 o 35 millimetri che riproducono un unica o massimo due immagini.
I lavori di McQueen sono sempre stati una scommessa con il visuale, contro la capacità degli esseri umani di guardare con occhi diversi la quotidianità. Le sue immagini “normali” diventano parte di una finzione, dove la realtà perde quasi tutto il suo valore, le forme si cristallizano e diventano parte di un paessaggio nuovo, il tutto diventa un esercizio quasi teatrale che punta allo straniamento. Giardini del 2009, opera che ha rappresentato l’Inghilterra nella 53ma Biennale d’arte di Venezia è un sunto di questo meccanismo, in esso la forma, il contenuto, la rappresentazione e il significato perdono la loro importanza, e l’estetica e un’ottima capacità tecnica e compositiva diventano contundenti.
La malleabilità di questo artista e il suo grande interesse per l’immagine come tale, gli ha permesso il passare dalla video arte o video esperimentale, al video di guerra, video documentari e dal 2007 ad oggi ai lungometraggi.
Grazie al grande successo dei suoi ultimi film, ha acquistato l’aggettivo di filmmaker e la sua pratica, nettamente artistica legata alla video arte, è rimasta un po’ da parte tanto da chiedersi se si sia creata una scissione all’interno del suo lavoro.
Il Gravesend fu il suo primo cortometraggio, seguito dal lungometraggio Hunger del 2008 e da Shame nel 2011, che potrebbero essere descritti come un ipotetico dittico che mette in discussione le ragioni del perchè vivere e del perchè morire.
In Italia, ci sono voluti quattro anni dall’uscita ufficiale di Hunger al festival di Cannes, per poterlo vedere, nell’aprile del 2012. Basterebbe dare un’occhiata alla locandina pubblicitaria del film per rendersi conto di come McQueen abbia creato una folgorante («La Repubblica») e trionfale («Rolling Stone») opera prima, la quale ha meravigliato e stupito una buona parte della critica cinematografica (su 114 giudizi quasi il 90% è risultato molto favorevole). Ambientata nel 1981, la pellicola narra della vera storia dell’attivista irlandese Bobby Sands, militante nell’IRA e membro del Parlamento del Regno Unito, morto il 5 maggio dello stesso anno nel carcere nord-irlandese di Long Kesh, dopo aver portato avanti per 66 giorni uno sciopero della fame in protesta contro le inumane condizioni con cui venivano detenuti i prigionieri politici irlandesi dietro decisione dell’allora Primo Ministro Margaret Thatcher. Hunger vinse nel 2008 al Festival di Cannes (la stessa edizione in cui vennero presentati Gomorra e Il Divo) il premio Camérad’or, primo riconoscimento del genere ottenuto da un film britannico, che viene assegnato alla migliore opera prima cinematografica, sia tra le selezioni ufficiali sia tra quelle parallele. Istituito nel 1978, il premio Caméra d’or ha visto alternarsi registi provenienti da numerosi Paesi, dalla Francia all’Iran, dal Giappone allo Sri Lanka, dal Vietnam agli Stati Uniti, che detengono il record di film premiati con ben 6 vittorie, ma nessun film presente nel palmares parla la lingua italiana. Eppure, non manca in Italia una tradizione cinematografica tale da precludere un simile riconoscimento anche i cineasti nostrani, benché troppo intralciati da politiche culturali da “botteghino” e spesso messi in sordina, se non alla berlina, da parte di un Paese, talvolta, troppo cieco per investire con lungimiranza sui nuovi talenti. Tra i vari premi vinti dal film di McQuenn nel 2008, spicca anche l’EuropeanFilmAwards per la miglior rivelazione (competizione relativamente giovane, istituita nel 1988 ed intitolata al grande regista tedesco Fassbinder), premio che però, fa piacere ricordare, è stato assegnato altresì a film italiani. Nel 1990, infatti, viene premiato l’attore Ennio Fantastichini per l’opera cinematografica Porte Aperte del registra Gianni Amelio, tratta dal romanzo omonimo di Sciascia, e di certo uno dei migliori esempi del genere giudiziario italiano: nella Palermo del 1937, un piccolo giudice di paese lotta per trasformare in ergastolo la condanna a morte di un fascista pluriomicida. Quattordici anni dopo il film di Amelio, è il turno dei fratelli Franzi, Andrea ed Antonio, i quali nel 2004, dopo aver realizzato sempre insieme altri due film, Don Milani – il priore di Barbiana ed Il cielo cade, vincono il premio EuropeanFilmAwards con la pellicola Certi bambini, opera tratta dal romanzo Premio Campiello di Diego De Silva, in cui si narra del dodicenne Rosario, orfano, adottato dalla camorra napoletana per diventare un baby-killer occasionale. Purtroppo sembrerebbero oramai lontani gli anni d’oro di Fellini e Leone, quando il mondo intero guardava al cinema italiano con spirito di emulazione e meraviglia, o quando De Sica e Pasolini vincevano due edizioni consecutive dell’Orso d’oro di Berlino nel 1971 e 1972 con i film Il giardino dei Finzi-Contini ed I racconti di Canterbury, dai tempi attuali caratterizzati da prodotti più simili a meteore che inquadrati in coerenti scuole di pensiero cinematografico. Fortunatamente quest’anno, però, il nostro cinema ha avuto un sussulto d’orgoglio e un riconoscimento di primaria importanza: ancora fresche sono le emozionanti immagini dell’ultima vittoria alla 62ma edizione dell’Orso d’oro di Berlino ad opera dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (che come i fratelli Fanzi hanno sempre lavorato in coppia), in quali, con la pellicola Cesare deve morire, mettono in scena con i detenuti della casa circondariale di Rebibbia un’opera del Bardo inglese. Forse sarebbe il momento che il cinema italiano, partendo dal successo della critica, e tra poco speriamo anche del botteghino, possa presto consegnare al pubblico nuove ed importanti opere cinematografiche, in risposta non solo alla crescente insicurezza economica del paese (di cultura si mangia!), ma soprattutto ad un determinato modo di fare e concepire il cinema, che dalla prima metà degli anni ’90 (sarà un caso) ha incanalato importanti risorse umane ed economiche verso un consumo da blockbuster. Sarebbe bello poter presto vedere nelle sale di tutta Europa nuovi film italiani del calibro de I pugni in tasca di Marco Bellocchio, o di Ossessione di Luchino Visconti, opere prime di una generazione scomparsa e di visionari. Una possibilità sarebbe quella di adottare il cammino di Steve McQueen , e aspettare che più videoartisti italiani inizino ha fare dei film ibridati tra video arte, film documentario, e film da botteghino per raggiungere risultati piú interessanti, un successo sicuro, e l’accettazione nazionale e internazionale. Saremmo in attessa di un futuro avvenire nel quale si perda totalmente la differenza tra video-maker e Film-maker.