di Rina Brundu. “Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato, la noia, l’abbandono, il niente son la tua malattia, paese mio ti lascio io vado via…” così cantava al tempo della mia prima infanzia un gruppo nazionalpopolare chiamato “I ricchi e poveri”. Il jingle mi è tornato in mente ripensando alle cose della memoria, cogitando sul come si cambia.
Ritengo che chi di più chi di meno ci siamo passati tutti: una infanzia meravigliosa dentro le dinamiche lente, quasi fatate, di un qualsiasi paesino di montagna, l’adolescenza sonnolenta preavviso di un qualche imminente cambio epocale, gli studi universitari nella grande città, gli inevitabili spostamenti – qualche volta anche ai confini del mondo – per motivi di lavoro et dulcis in fundo la nostalgia. Quest’ultima ti prende in un periodo ben identificato della vita, intorno ai trent’anni. Ha una sorta di effetto dopamina, produce innamoramento di tutto ciò che è stato il tuo passato, dei suoi tempi idealizzati, di rapporti illuminati da filosofica età dell’oro che probabilmente non sono mai stati.
Poi, intorno ai quaranta ci si risveglia… mercé avventure e disavventure, pregnanti fatti della vita belli o brutti che siano, si capisce finalmente che il passato è bello solamente quando si riesce a conservarlo dentro i paletti fermi del suo realm. Insomma, non si deve mai tentare di riviverlo perché il farlo porta seco effettti collaterali perniciosi, primo fra tutti il suo rigetto.
Di fatto è questo il periodo della vita che vivo io. Un rigetto totale ed assoluto di tutto ciò che ho fatto fino ad un’ora fa senza possibilità d’appello. Vivo nel presente e nel futuro. Come si impara. Meglio ancora, come si cambia… vivendo.
Featured image, rami in fiore nel giardino di casa.