La classica risposta pragmatista ha un carattere prettamente darwiniano, e si basa sul concetto di “lotta per la sopravvivenza”. In altri termini, quando si presenta una nuova credenza noi cerchiamo di inserirla nel nostro sistema. Se il tentativo ha successo non vi sono difficoltà. Qualche volta, tuttavia, sono possibili dei cambiamenti radicali, per cui preferiamo conservare la credenza nuova abbandonando il resto del sistema. Si verifica quindi una lotta incessante per la sopravvivenza tra teorie, idee e visioni del mondo, e in questa lotta hanno la meglio quelle più adatte (nel senso che ci consentono di meglio spiegare e comprendere la realtà circostante).
Perché – si chiedono i pragmatisti – certe credenze si rivelano più importanti di altre? E per quale motivo tra i vari livelli in cui si articola la realtà alcuni appaiono più rilevanti? La risposta viene, ancora una volta, dalla teoria della selezione naturale. Per esempio, le persone che attribuiscono maggiore realtà alle entità presupposte dalla magia rispetto a quelle che la scienza ci propone avranno, inevitabilmente, dei problemi pratici nel corso della vita quotidiana. Utilità da un lato, e pratica dall’altro sono quindi i due concetti-chiave su cui si regge l’edificio speculativo del pragmatismo.
Dando per scontato il fatto che tutti gli esseri umani condividono un certo livello di realtà, e cioè un insieme comune di percezioni e di rappresentazioni, il pragmatismo sostiene che tali credenze condivise sono importanti e offrono una base oggettiva per l’azione. Si tratta ovviamente di una oggettività diversa da quella classica, intesa come rappresentazione fedele di una realtà indipendente dal soggetto che conosce. Ma questa sorta di oggettività “debole” è, secondo i pragmatisti, tutto ciò che abbiamo a disposizione e, pertanto, da essa siamo costretti a partire. Che cos’è, dunque, la teoria migliore di cui parlano gli esponenti di questa corrente filosofica? Sarà quella che consente di organizzare meglio le percezioni sensoriali che sono state selezionate in quanto comuni a tutti, e che danno origine a credenze tenaci e difficili da abbandonare
La riscoperta relativamente recente della tradizione pragmatista negli Stati Uniti ha riportato alla ribalta tesi come quelle summenzionate, le quali non risultano certamente incompatibili con i dettami di fondo della filosofia analitica. La crisi di quest’ultima potrebbe pertanto trovare utili sbocchi nell’apertura al dialogo con altre tradizioni di pensiero e nel confronto costante con i classici.
V’è indubbiamente del vero nella visione – un po’ kuhniana – dell’analisi come paradigma filosofico che, dopo un lungo periodo di splendore, è destinato a essere rimpiazzato da altri e più nuovi paradigmi. Tuttavia, non è necessario pensare che il processo di sostituzione debba essere totale. Più ragionevole risulta la possibilità che la filosofia analitica riesca a salvaguardare il proprio patrimonio metodologico e conoscitivo interagendo con correnti a essa sostanzialmente vicine. E, a ben pensare, proprio un’operazione di questo tipo hanno compiuto auori come Quine e Putnam, innestando nel tronco analitico istanze pragmatiste che con esso sono compatibili. Anche al pragmatismo si possono rivolgere critiche circostanziate; tuttavia, la sua maggiore flessibilità rispetto alla tradizione analitica ortodossa lo rende più fruibile in un’epoca di crisi dei paradigmi come quella odierna.
Dedicato.
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