Prima di procedere oltre è però necessario chiarire il mio punto di partenza. Vorrei, infatti, precisare che io non ho alcun titolo per dirimere: non ho una laurea specifica (la speranza è di poterla prendere in futuro!) e non ho fatto corsi o esami di Filosofia. Non è dunque un caso di “io ignoro qualcosa” rispetto all’argomento, ma è piuttosto un caso di “io ignoro tutto” e senza connotazioni socratiche a sminuire la validità di questa dichiarazione. La mia formazione secondaria è stata tecnica e commerciale, la mia formazione universitaria è stata letteraria, mentre la mia formazione professionale è stata tecnica e molto… molto digitalizzata. Nonché digitalizzante.
Da dove viene allora il mio interesse per la Filosofia, interesse che pur esiste da diversi anni? Ritengo, dal suo essere, questa, una delle rare materie destinate ad essere “scoperte” durante il percorso di vita. Che vengono a noi anche e soprattutto quando noi sembriamo muovere verso direzioni-altre. Sotto dati punti di vista questo è stato pure il caso per Massimo Pittau che ha scoperto tale disciplina in prima liceo e che da allora non l’ha più abbandonata. L’incontro ha condizionato tutta la sua vita: da un lato ha mandato a monte i suoi sogni di futuro ingegnere, dall’altro lo ha portato verso una sostanziale avventura didattica in tanti licei della Sardegna per circa un quarto di secolo.
Tornando a me, l’amore per questi argomenti è invece nato di pari passo con la mia crescente passione per la fisica quantistica e per lo stupefacente “universo” che la dimensione subatomica ci rivela giorno dopo giorno. A mio modo di vedere, infatti, non vi è nulla di così straordinariamente vicino alle fondamentali domande che si ponevano i grandi filosofi greci, delle domande che sorgono spontanee mano a mano che le investigazioni dentro la natura delle particelle elementari diventano più sofisticate. Ma su questo punto voglio tornarci perché è un fattore importante rispetto al discorso che vorrei fare. Per intanto mi limito a ribadire che l’interesse per la Nuova Fisica è stato il mio punto di partenza, ovvero il momento che ha dato il via alla mia personale ricerca e al mio personale tentativo di capire, studiare, conoscere tutto ciò che c’era stato… prima. A livello di pensiero filosofico, si intende.
Ricordo, per esempio, l’ammirazione con cui leggevo le dissertazioni dei primi filosofi che si sforzavano di dare ragione del mistero dell’esistenza. Sebbene la quasi totalità di quelle argomentazioni oggigiorno facciano sorridere da un punto di vista strettamente scientifico – pensiamo, per esempio, a Talete di Mileto che vedeva nell’acqua il principio materiale di tutte le cose – certamente vi è poco da criticare rispetto alla capacità di cogitazione logica e alla chiarezza di pensiero che riuscivano a mettere in campo. Rispetto a questi argomenti, il mio filosofo presocratito favorito è sempre stato Eraclito, il grande skoteinòs. Colui che diceva che “Uno è per me diecimila, se è il migliore” e il cui pensiero era talmente criptico e profondo da dare dei grattacapi persino a Socrate.
La ragione per cui ho sempre amato questa particolare ”figura” credo abbia a che vedere non tanto con la “profondità” del suo pensiero, quanto piuttosto con la determinazione con cui egli lo imponeva e lo difendeva, al punto di dichiarare che lui la sua filosofia se la sarebbe creata da sé. Uno dei primi grandi pensatori isolati, dunque. Un uomo che, forte anche della sua nobiltà d’animo (aveva rinunciato a tutti i suoi beni terreni!), viveva senza complessi la sua alterigia e la sua superbia e contrapponeva il filosofo (ovvero colui che è capace di sondare la profondità della sua anima) al “dormiente”, cioè all’uomo comune prono a venerare le sole cose caduche e il superficiale nell’esistenza. Mi domando dunque se questi “dormienti” teorizzati da questo grande personaggio dell’antichità non siano per certi versi i progenitori dei “dormienti” descritti dal professor Pittau nel suo saggio. O, per meglio dire, di coloro che preferiscono l’estetica del linguaggio filosofico alla sua sostanza.
La tesi esposta dal professore nel lavoro che stiamo analizzando è d’altronde semplice e oltremodo chiara: i manuali di Filosofia utilizzati oggidì nelle nostre scuole sono scritti da autori che “non hanno affatto letto direttamente i filosofi che espongono e spiegano, ma hanno letto e espongono (NDA quando non copiano) solamente ciò che altri studiosi hanno letto e scritto di quei filosofi” (1). Ne deriva che molti sarebbero i “professori di filosofia” ma pochi, pochissimi i filosofi moderni. A dirla tutta, Massimo Pittau va anche oltre e si spinge fino al constatare come “il “cancro mortale” dei professori di filosofia consista nel loro prevalente limitarsi alla sola analisi e argomentazione intorno alle “parole”, nel caratterizzarsi del loro parlare e ragionare in maniera prevalente se non esclusiva come “verbalismo” e nient’altro”(1).
Come non essere d’accordo? Di fatto è proprio questa la prima perplessità che coglie un qualsiasi novizio alla materia. Non c’è discorso intavolato sull’argomento che non inizi con l’esperto di turno che cita Tizio, Caio e Sempronio, senza mai poggiare sul piatto un granello cogitato che sia frutto di una sua privata elucubrazione. Lo psittacismo leibneziano imperat, dunque! Naturalmente non si tratta di novità dato che – ricorda lo stesso professore – già Socrate e Platone si spendevano molto contro i “sofisti” e i “parolai”, altrimenti detto “venditori di fumo”.
Ripeto, come non essere d’accordo con una tesi che racconta in maniera così chiara e onesta lo status quo? Da questo momento in poi però il saggio del professore tende a prendere, a mio giudizio, una direzione più enigmatica. Da un lato, infatti, mantiene la sua grinta e la sua forza laddove lamenta in maniera sentita la totale dipendenza italica dal “pensiero” tedesco nella nostra storia recente e si spinge fino ad una critica serrata dei limiti del pensiero kantiano (viva la faccia, finalmente qualcuno che non si inginocchia davanti al maestro, fermo restando che l’abbaglio kantiano sulla natura della dimensione spazio-tempo potrebbe pure essere perdonato dato che Einstein ebbe comunque a “soffrire” parecchio prima di vedere riconosciute, nonché provate, le sue teorie!!), dall’altro si sofferma troppo sugli aspetti “linguistici” o “di linguaggio” del problema considerato, di fatto dimenticando di elaborare ulteriormente sul punto centrale proposto nella sua stessa tesi. Punto centrale che, in un modo o nell’altro, ruota intorno alla figura del pensatore moderno. Meglio ancora, riguarda… la sua assenza. Il suo non –esistere.
Come riportare quindi la necessaria attenzione sul problema del “cogitare”, ovvero di un cogitare efficace e diverso, adatto ai tempi e che non si risolva in un logorato “pensarsela addosso”? Del resto se vi sono relazioni tra “idee” e “parole” e tra “pensiero” e “lingua”, secondo me esiste, o dovrebbe esistere, una relazione ancora più importante (la più importante?) tra il “pensare” e il “fare”. Perché è proprio da questa relazione che si evince la reale capacità del pensiero (e dunque della disciplina filosofica?) di incidere sulla vita reale allo scopo di fare una differenza. E ciò proprio per evitare la piaga dei “docenti delle parole” di cui parla Massimo Pittau, laddove le altre discipline e i loro “maestri” prediliggono le “argomentazioni sui “fatti”, sui fatti reali e concreti”.
Ne deriva che se concordo con il professore quando scrive che “il primo problema che l’uomo si pone con la filosofia è il problema della «realtà», di cui egli stesso fa parte” e quindi procede ad elencare le domande fondamentali che da sempre hanno fatto l’haunting delle nostre esistenze di esseri “desti” e non “dormienti”, ho più difficoltà a seguirlo quando risolve a fare appello (sia pure per corrobare il ragionamento logico dentro il suo discorso) ad altri statements impegnati quali “Nella vita dell’uomo due momenti sono fondamentali e assolutamente determinanti: il “nascere” e il “morire”.
E se invece “l’entrata” e “l’uscita” fossero solamente incidentali per il pensatore moderno costretto, suo malgrado, a scontrarsi con le incredibili realtà-quotidiane da laboratorio, realtà fisiche e metafisiche ad un tempo o, per dirla con la famigerata Teoria delle Stringhe, intrinsecamente multidimensionali? Da quali basi parto per raggiungere una simile (azzardata?) conclusione? Proprio da quelle che ci offre la già citata fisica quantistica, nonché le sue… teorie più avveniristiche e trendy, appunto. Ma esagerazioni a parte, di sicuro c’è che è difficile immaginare una qualsiasi altra tipologia di pensatore che sia più vicino di un filosofo della scienza a “provare” sul campo le domande fondamentali che riguardano il nostro esistere. Per inciso, quelle stesse domande che si ponevano i grandi pensatori greci ieri e ci poniamo noi ancora oggi. Allo stesso modo, mi è difficile immaginare una qualsiasi altra tipologia di pensatore che sia più vicino di un filosofo della scienza a “provare” la nostra esistenza (con tutto quel che ne segue) su una dimensione-altra, qualunque essa sia! Dato che quella è la strada da percorrere (l’unica strada a mio avviso!), forse sta qui finanche la soluzione del rebus che tentava di risolvere Massimo Pittau, nonché la risposta alla sua implicita domanda: perché oggi ci si limita a “pensarcela addosso” con il risultato di non fare più filosofia?
Forse semplicemente perché manca la conoscenza, la knowledge del dettaglio tecnico che permette una elucubrazione logica e coerente con quanto vi è di già “provato” sul piano empirico (ovvero, nel laboratorio di cui sopra). Oppure, perché la tecnica e la scienza avanzano con passo così veloce che i “docenti delle parole”, per un limite di tempo, ma forse anche per un mero limite proprio, non riescono a mettervi dietro, di fatto squalificandosi a priori. Ma che differenza può fare questa mancanza di “tempo” di “capacità” e di “conoscenza”? Per l’ormai mitico “equilibrista” (2) di Massimo Pittau, fondamentale direi. La stessa che esiste tra il muoversi incerto su un filo teso sopra altissimo abisso e il muoversi civettuolo e con una data baldanza sullo stesso filo sapendo che il proprietario del circo ha installato una formidabile rete di protezione sotto… a scanso di caduta!
Note:
(1) “Filosofia. Come prepararsi all’esperienza filosofica” di Massimo Pittau (2012).
(2) E concludo pertanto affermando che la filosofia ha un suo posto, solido, dignitoso, regale ed anzi “fondamentale” nel quadro della vita e del sapere degli uomini. D’altronde, se non fossi del tutto convinto di questo, sarei in disaccordo con me stesso, posto che sono autore del presente saggio, il quale è e vuole essere un sensato “piccolo saggio di filosofia”. In esso a me sembra soprattutto di avere mostrato e dimostrato che il “linguaggio” è uno strumento assolutamente indispensabile per chiarire, approfondire e definire le nostre “idee” e per rendere corretti e veritieri i nostri “ragionamenti”, ma insieme può costituire un pesantissimo fardello e un gravissimo impedimento per la definizione delle nostre idee e per il procedere dei nostri ragionamenti. Pertanto ritengo di aver dimostrato che il filosofo rispetto al linguaggio è come un «equilibrista», il quale pencola continuamente fra l’asserire idee e tesi esatte e profonde e il pronunziare parole del tutto prive di senso o di significato.
Featured image, Eraclito, olio su tavola di Hendrick ter Brugghen, 1628, Rijksmuseum (Amsterdam)
Seconda immagine, Eraclito in un dipinto di Johannes Moreelse.