Credo che la filosofia sia l’unica disciplina elaborata dalla mente umana che possa autodefinirsi “senza confini”. Qualsiasi altra disciplina costringe il sapere a circoscriverlo in un ambito specifico. Se vogliamo, questa è la forza ma anche la sua debolezza. La sua forza perché il discorso filosofico non si è mai sottratto al confronto con altri ambiti del sapere; e più di una volta la riflessione filosofica ha avuto il merito di risollevare questi ambiti quando essi entravano in crisi (penso soltanto, per fare degli esempi fulminei, a come l’opera di Wittgenstein abbia contributo a rinnovare le basi epistemologiche della sociologia o della psicologia, o a come l’antropologia filosofica di Gehlen abbia contribuito a ripensare la posizione dell’uomo nel mondo e nella natura – basta leggere quanto ha scritto a tal proposito Umberto Galimberti in Psiche e techne). La sua debolezza perché – come da tempo hanno sottolineato coloro che si occupano di questo problema – essendo privo di un oggetto specifico, il discorso filosofico corre il rischio di risultare troppo generico e poco concreto nell’affrontare i problemi attuali della vita.
Vaghezza e determinatezza: credo che siano queste le due qualità paradossali della filosofia, ma anche quelle che più affascinano coloro che si accostano ad essa.
Indeterminatezza/determinatezza, come insegna la Scienza della logica di Hegel, sono le due categorie dialettiche da cui emerge l’Essere. Dunque, il discorso filosofico vive nella tensione di porre dei limiti al sapere ma allo stesso tempo vive nella necessità di indicare il modo di trascenderli. Come insegnava il compianto professor Emilio Garroni, la filosofia è uno «sguardo attraverso». Questa premessa mi aiuta a chiarire meglio il discorso sull'Etoanalisi che sto elaborando. A coloro che mi domandavano in quale disciplina essa s’inserisce – poiché comunque abbiamo il bisogno di identificare qualcosa – io ho sempre risposto: in tante ma in nessuna in particolare, perché attraversa tante discipline ma non si colloca in nessuna di esse. Per dare un’idea degli autori a cui più esplicitamente e più frequentemente mi richiamo, fornisco un elenco sommario: dalla sociologia ho considerato soprattutto gli interazionisti simbolici (Mead, Blumer, Goffman); la fenomenologia sociologica di Berger e Luckmann; la pragmatica della comunicazione della Scuola di Palo Alto; l’antropologia filosofica di Gehlen e la riflessione di Galimberti; la filosofia sociologica di Simmel; la teoria sociologica di Luhmann; la teoria dell’attaccamento di Bowlby; il pensiero di René Girard; la teoria delle catastrofi di René Thom; la lettura meditata di Massa e potere di Elias Canetti.
Ciò di cui m’occupo è un esame delle dimensioni e delle strutture dell’intersoggettività umana, un tema molto caro a Hegel, Dilthey, Husserl, Merleau-Ponty, Wittgenstein e allo stesso Sartre. Ma è un tema che rileggo e interpreto alla luce di altri autori appartenenti ad altri ambiti disciplinari non specificamente filosofici. Per studiare queste dimensioni e queste strutture, ho prima di tutto specificare la dimensione biologica entro al quale l’essere umano si trova a vivere, selezionando specifiche modalità interattive che prima di entrare a far parte della dimensione sociale e culturale – e quindi di essere socialmente “addomesticate” – sono, appunto, parte integrante del nostro essere biologico. Queste modalità interattive sono in realtà delle strategie d’azione e reazione interpersonali messe in atto, consapevolmente o inconsapevolmente, dai soggetti sociali allo scopo di affermare o di preservare il proprio Sé. Secondo le mie ipotesi, nello scambio con l’altro, il Sé “adotta” specifiche strategie comportamentali, dirette dall’atteggiamento che il Sé ha nei propri e negli altrui confronti. Ciascuna modalità interattiva comprende tanto uno schema d’offesa, volto all’affermazione del Sé, quanto uno schema di difesa, volto alla preservazione del Sé; le mosse di uno schema sono coordinate sulle mosse dall’altro schema. Queste modalità interattive, incorporate in ogni essere umano, si rivelano non soltanto nello scambio con l’altro sé, ma anche nei confronti degli oggetti e dello spazio entro cui l’attore viene a trovarsi, poiché esse costituiscono delle modalità operative attraverso le quali i soggetti attribuiscono significato al loro agire. In altri termini, le nostre interpretazioni del mondo, i nostri scopi e valori, le nostre aspettative e categorie dipendono dalla modalità prevalente che noi abbiamo incorporata. Quindi, se la premessa è valida – e ovviamente in questa sede non mi è possibile svilupparla in tutte le sue conseguenze – allora vuol dire che conoscere o portare a conoscenza la nostra particolare modalità interattiva ai soggetti significa comprendere meglio la relazione sociale che si vive, senza ricorrere a tecniche psicoterapeutiche o all'inconscio, ecc., ma «praticamente», cioè facendo riflettere il soggetto sul modo in cui interagisce con prossimo, in modo da rendere consapevole il suo particolare stile interazionale.
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