Fitzcarraldo, di Werner Herzog, Germania Ovest, 1982, 158 minuti (colore)
«Chi sogna può muovere le montagne» (B. S. Fitzgerald)
«Nessuno riuscirà a convincermi ad essere felice di tutto questo» (W. Herzog)
Ogni tanto nella Storia, l’uomo ha prodotto opere dotate di un respiro universale. Opere che, a chiedere “Di cosa parla, qual è il messaggio?” verrebbe da rispondere pirandellianamente “Uno, nessuno e centomila”, con un forte accento su centomila.
Fitzcarraldo è Brian Sweeny Fitzgerald, un avventuriero irlandese con lo sguardo da incubo di Klaus Kinski. Perché Fitzcarraldo? Provate voi a far pronunciare “Fitzgerald” ad un peruviano di fine ‘800. Fitz è, oltre che un visionario, un fallito. Ha speso praticamente tutti i suoi averi nel finanziamento di una ferrovia transandina, progetto ingoiato dalle profondità della foresta amazzonica e dai dirupi della Cordigliera, nonché in una fabbrica di ghiaccio dalla dubbia efficienza produttiva. Fitz vive in una casa di legno su palafitte, immersa nella favela ante-litteram che galleggia sul Rio delle Amazzoni ai margini di Iquitos, e ogni tanto passa la notte nel letto della tenutaria di un bordello (Claudia Cardinale). Fitz ha un sogno: costruire un teatro dell’opera proprio a Iquitos, dove far esibire nientemeno che Renato Caruso, la popstar della lirica italiana. Lirica che lo ossessiona, e lo accompagna ovunque. Come raccogliere i soldi (tanti) necessari a realizzare il suo sogno? Don Aquilino, un ricchissimo latifondista che lo ritiene schiettamente pazzo ma un po’ lo ammira, gli mostra la via: coltivazione e commercio del caucciù, padre della gomma che sta invadendo il mondo coloniale. E come trovare una via commerciale vergine, tale da fruttare immediatamente senza entrare in conflitto col cartello dei proprietari terrieri del quale lo stesso don Aquilino fa parte? Semplice, pensa Fitz. Basta far attraversare alla sua scassatissima nave a vapore (Molly Aida, in simultaneo onore della sua amante e della sua ossessione) una montagna che divide due fiumi, arterie sulle quali circola il prezioso caucciù. Letteralmente: attraversare una montagna.
Fitzcarraldo è un film sul sogno, e sulla volontà. Anzi, è un film del sogno e della volontà. Herzog, Kinski e tutto il personale coinvolto nelle riprese (interpreti e tecnici) hanno fatto veramente quel che ci mostrano nella pellicola. Hanno vissuto per oltre due anni nella foresta, hanno trattato con le tribù indios, hanno affrontato uragani, frecce, proiettili (quelli dei militari delle guarnigioni di frontiera). Soprattutto, hanno veramente issato una nave a vapore su una montagna con argani di legno e funi, a forza di braccia. Sono quasi impazziti davvero, come Fitz che si tiene la fronte, i piedi immersi nel fango amazzonico e la sua nave rovesciata su un fianco dopo la rottura di una fune.
Chi sogna può muovere le montagne, è vero.
Ma chi sogna è inevitabilmente l’essere più spietato sulla faccia della terra.
La storia di Fitzcarraldo, intesa come effettiva realizzazione del film ma anche come riflessione sui temi che il film stesso smuove, è raccontata dallo stesso Werner Herzog in Eroberung des Nutzlosen (La conquista dell’inutile nell’edizione italiana della Mondadori, 2007).
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