Eppure, Fitzcarraldo viene avvisato:
La giungla è piena d'illusioni, d0inganni, di sogni, di miraggi e demoni.
Ma Fitzcarraldo è un film diversissimo dagli altri realizzati da Werner Herzog con Klaus Kinski: questi è stato solo l'ultima scelta del regista, che aveva pensato a lui per il ruolo, ma l'aveva subito escluso per l'estrema difficoltà delle riprese in Perù che avrebbero messo in difficoltà il fragilissimo equilibrio psicologico dell'attore. Herzog aveva pensato a Jack Nicholson (che definisce "un'isola di lucidità mentale in confronto [a K.K.]") o a Jason Robards ("che sarebbe stato un protagonista molto diverso") e, accanto al rôle-titre, a Mick Jagger per un altro ruolo. Kinski fu convocato in effetti solo alla fine, quando il progetto rischiava davvero di fallire.
A differenza di Woyzeck (e, in parte, di Aguirre), Fitzcarraldo è un film che merita di esser chiamato "epico". C'è, è vero, l'eroe invasato, l'eroe solitario alle prese con il suo delirio onirico e verbale, ma questo eroe è alla guida di un progetto e di un popolo destinato a realizzarlo. Per lo meno, Fitzcarraldo è un film corale: non è solo la voce del protagonista a sentirsi, né quella di Enrico Caruso, che accompagna dal grammofono l'impresa. C'è la voce di un popolo di jivari, c'è la voce degli avari e aridi commercianti di caucciù e c'è la voce di una donna innamorata, Molly, una Claudia Cardinale astratta, che sembra nata per il cinema tedesco.
Per questo l'uomo parla di sé, della sua storia, del suo sogno:
La prova è nei miei occhi, nella mia memoria. La mia prova è la mia presenza.
L'uomo si dice nel momento in cui viene rinnegato nel senso stesso che dà alla vita. Fitzcarraldo, con la sua fotografia sempre sbalorditiva, con il suono calibrato intimamemnte a una tragedia mai melodrammatica, è un poema dell'io, è un sogno a occhi aperti che non guarda solo la realtà, ma ciò che significa essere se stessi, essere vivi, essere altri. Grandissimo Werner Herzog.