Non soltanto questo però, come vediamo analizzando la seconda parte della raccolta, dove, il raggiungimento di quel cielo (l’abbandono del lavoro nella fabbrica, e quindi l’agognato spazio di poesia) innesta l’autore in un problema ulteriore: quale sogno resta quando hai raggiunto il sogno? (“Hai creato una favola e la vivi qui in pantofole / nessuno ha distratto la tua dimora di nuvole”). Questa la parte denominata “Poesie del disincanto”. Nel compiersi della favola, l’accidia potrebbe prendere il sopravvento, dimenticando l’essere costantemente in tensione dell’uomo. Sartre diceva che essere è giocare a essere, un continuo progettarsi oltre la situazione, trascendendola nel valore. Qui, in uno spazio poetico, ho rivisto la medesima riflessione filosofica, trasfigurata però nella bellezza dei versi: “Non andare a gettarti nell’accidia incatenante del laggiù indicativo, / dove s’imprimono i numeri sulle pagine / d’una vita a perdere”. La consapevolezza di quell’oltre che solo può innalzare la vita al di là della mera datità (l’essere gettato) non è però essa stessa compiuta, approdo facile, poiché in tutto rispecchia l’essere in divenire del progetto autentico del vivere. Trovano quindi spazio dubbi, incertezze, dolore, e le stesse tentazioni prima esorcizzate: “ma non entrano più le albe ed i mattini rosati […] non c’entrano più / le ore del tempo sghimbescio, accantonate / in un grumo di sogni a capoletto [...] ho un termine all’orizzonte che mi nega / ogni prosieguo, è divisa la luce dal buio, / e la notte sarà come sarà, colma di silenzi / e di immobili sospiri… non entrerà dunque / nemmeno un atomo di cuore: tutto / è fermo ormai nell’attesa che si svuoti / il pozzo dei castighi e dei dolori, domani, / per riscrivere speranze ed illusioni, altre / note di colore, su un taccuino ancora intonso / comparso così, all’improvviso, in un angolo / di luce di un altro mattino fortunoso!”. Il domani è un giorno fortunato che sfida la morte: “la morte è qui / – comunque- aggrappata a me senza pretese / di vedermi riciclato in un atomo d’azoto, / quantunque turbinoso, avventuroso… Ed io, / mia cara, sarò guardingo nel chiedere la vita: / un passo dopo l’altro, in silenzio, attento / a non dissolvermi nel cielo”. Insorge quindi un nuovo nucleo tematico, quello contraddistinto dall’incedere del tempo, del nulla che si staglia interrogativo all’orizzonte rendendo fragile ogni scelta, ogni giorno. La “morte è morte e più non si dica oltre” e la vita, attraverso questa contrazione del futuro, viene riscritta come tempo d’attesa, come aspettativa di rinascita mediante la morte stessa “la vita è quel fantasma in attesa d’essere evocato”. Tutte le aspettative, i sogni, i desideri crollano in un presente in cui nessuno più “sa leggere i colori del cielo né le onde del mare”, “abbiamo perso il coro degli angeli”, e “per noi non ci sarà più / risposta dal cuore prima illuminata; / né ai sogni, né ai paradisi fatti di tremor d’amore / e di squarci di speranza”. Nella prospettiva finale dell’autore sembra quindi dissolversi ogni cielo, ogni al di là che dona significato al presente, nell’emergere di un oltre che eclissa tutto il resto, è la morte. Sembra… perché, in realtà, come attesta il colpo di coda finale, nel poeta fermentano altre volontà: “Ma tu insisti! Ancora vuoi portarti addosso / questa pietra di facezie, bagaglio di chincaglie. / Ancora risali la china del mistero con un forte / grido d’arrembaggio nella gola, come / il vecchio corsaro della storia favolosa!...”. Nonostante la consapevolezza, nonostante il dialogo cosciente e, oserei, duro del poeta con la morte e il nulla, la svalutazione cinica di quelle “facezie” e “chincaglie” non riesce a smorzare il grido finale che solo può rendere onore a una vita come perenne movimento di ogni atomo (quello d’azoto, quello del cuore, ecc), questo “sciamarsi di molecole sfatte, / l’agitarsi di tutti i colori pazzi nell’incavo degli occhi”: Io cerco altre cose, l'atto di coraggio del poeta. Così, ha trovato risposta la mia domanda iniziale: il disincanto è tutto quanto interviene con prepotenza quando la maturità avvera o rende vani i sogni, quando la favola è resa libera dal suo compito di ammorbidire la quotidianità. Il disincanto si aggira con più forza proprio in quel mondo che non sembra suo: non nello spazio lavorativo bensì in quello domestico onirico, delle pantofole e dell’albeggiare del sole sul davanzale. Lì, l’autore lo aspetta e l’affronta con tutta la forza del pensiero poetico che è autocoscienza e contemporaneamente superamento di questa.
Flavia Balsamo