Flower Flesh- Duck in the Box

Creato il 22 luglio 2011 da Athos Enrile @AthosEnrile1

Duck in the box” è il primo album dei Flower Flesh, gruppo del ponente savonese, da tempo attivo in fase live. Come sottolineato da Alberto Sgarlato nell’intervista a seguire, la band ha scelto la via forse più difficile e “costosa” per presentare il proprio progetto, al momento completamente autofinanziato. Ma questi ragazzi, mi pare di capire siano legati ad aspetti collaterali (apparentemente) alla”sostanza” della musica, vale a dire il piacere di toccare, annusare, guardate e vivere una copertina di un CD, analogamente a quanto avveniva (ma il fenomeno sta tornando alla ribalta) per i vinili, quando certi riti erano inseparabili dal'elemento "suono". E questo lato “antico”, di per sé sorprendente, se riferito a giovani uomini, è palese nella loro proposta. Oltre quaranta minuti di musica composta e arrangiata dai F.F. con il prezioso aiuto di Alessandro Mazzitelli, presso il cui studio sono avvenute le registrazioni e le conseguenti correzioni tecniche.

Difficile inserire questo “disco” in un preciso contesto, cosa da cui la band, sono certo, fuggirebbe. Eppure dare un segno di distinzione è cosa utile per chi, preso dalla curiosità, decidesse di saperne di più, magari dopo essere rimasto affascinato dalla grafica della cover.

Duck in the box è il sunto delle esperienze musicali accumulate nel tempo, e sgorgate spontanee al momento giusto. Perché sottolineare qualcosa che sa di ovvio? Alberto racconta come non sia mai stata una preoccupazione il creare secondo steretotipi, ma piuttosto lasciar fluire la musica senza vincoli temporali, ne concettuali. Il cantare in inglese (tranne brevi concessioni alla nostra lingua) è funzionale all’essere universali, al passare il messaggio in un idioma ormai di tutti, con il pregio della “musicalità” che solo la lingua di Albione presenta.

La musica progressiva resta una linea guida su cui si inseriscono momenti più “duri”, alternati a fasi sognanti. Ma in questo contenitore pieno di reminiscenze “classiche”perfettamente miscelate tra loro, si colgono attimi, “anch’essi classici”, che si rifanno a periodi in cui il prog doveva ancora esplodere. Mi riferisco a similitudini col mondo dei Doors, reso esplicito dall’unico vocalist che abbia mai sentito vicino a Morrison. La voce di Daniel Elvstrom ha infatti la caratteristica di ricordare (non solo nel brano citato nell’intervista) la famosa timbrica di Jim.

Prog, new Prog, rock, folk… Alberto Sgarlato ci spiega nei dettagli quale sia il verbo dei Flower Flesh, un gruppo di qualità che ha scelto l’impervia strada della musica di impegno che, sono certo, darà loro grosse soddisfazioni… e sono altresì sicuro che una buona dose di “sofferenza” è già stata presa in conto!

Tutte le informazioni sulla band e sul loro lavoro si possono reperire ai seguenti link:

www.myspace.com/flowerflesh

flowerflesh@mulinodegliartisti.eu

Flower Flesh Official Fan Club (facebook)



L’INTERVISTA

Come è nato e come si è evoluto ilprogetto “Flower Flesh”?

Le cose più piacevoli capitano sempre per caso. Tra il 2005 e il 2006 io lavoravo in uno studio di grafica a Pietra Ligure e il bassista, Ivan, lavorava per l’azienda che ci curava la manutenzione degli estintori. Ci conoscevamo solo di vista, prima di quel momento, e ognuno dei due sapeva che l’altro suonava. Durante gli interventi di manutenzione ordinaria facevamo conversazione e ci raccontavamo le rispettive idee, i progetti, i sogni… finchè un giorno Ivan mi ha detto: “Con alcuni amici sto allestendo una nuova sala prove a Tovo S. Giacomo. Perché qualche volta non ci vediamo là, per vedere un po’ che cosa esce fuori?”

Che tipo di cultura e formazione di base vi ha portato ad esprimervi in un ambito che si può definire di nicchia?

Reputo molto importante il fatto che quando si è stabilizzata la formazione nessuno di noi ha detto: “facciamo una band che suoni il tale genere, o con il tale stile”. Abbiamo semplicemente detto: “Cerchiamo di produrre qualcosa di nostro. Di cover band in giro ce ne sono già troppe”. Ognuno di noi 5 ha ascoltato musica praticamente da sempre, e abbiamo dei gusti estremamente vasti. Ma nel momento in cui ogni componente ha presentato agli altri le sue idee e ci si lavorava tutti insieme, ci siamo resi conto che il “fil rouge” che ci legava maggiormente era il cosiddetto progressive rock. Anche gli amici che venivano a trovarci in sala prove ci dicevano: “Dovendo per forza collocarvi in un genere, le atmosfere che evocate maggiormente sono quelle progressive”. Del resto il mondo prog è un calderone talmente vasto!

Non amo molto le etichette, ma dopo il primo ascolto potrei inserire “Duck in the Box” nella sfera del progmoderno…. un po’ “metallico”. Come spieghereste il vostro genere espressivo ad un giovane che ascolta musica senza particolari conoscenze?

Se dovessi spiegare quello che faccio a un non-addetto-ai-lavori e senza terminologie tecniche gli direi che i Flower Flesh patiscono gli schemi: no alla classica canzonetta da tre minuti, no alla classica formula strofa-ritornello-assolo-finalino, no al classico tempo quadrato pum-ciack-pum-pum-ciack… Se abbiamo voglia di fare due minuti di intro esotica, su scale che evochino quelle arabe o mediorientali, e poi farla sfociare in un riff di chitarra hard, e poi staccare con un giro funky, lo facciamo. L’importante è suonare tutto quello che ci piace senza vincoli o costrizioni. E comunque devo dire che proprio dai non-addetti-ai-lavori ci sono sempre arrivati i giudizi più lusinghieri. Quando dopo un concerto viene da me qualcuno del pubblico che mi dice: “Guarda, io non capisco niente di musica e non me ne intendo proprio, però mi siete piaciuti un sacco!” per me è il commento più bello, più emozionante e più “puro” che ci sia, perché viene premiata la bellezza della canzone, a prescindere da qualsiasi preconcetto di genere o di stile.

Musica e liriche. Quale peso date ai testi e quanto può essere efficace il “messaggio” che deriva dalle parole integrate dai suoni?

Per i Flower Flesh i testi sono importantissimi e la scelta della lingua inglese aspira proprio a trovare una sorta di linguaggio universale, che arrivi a più gente possibile. Nelle note del CD troverai testi firmati da D.E., il nostro cantante, da me e da Eugenio (detto “Meo”), il nostro ex-cantante. I contenuti delle nostre canzoni sono molto “figli del nostro tempo”, parlano di quei mali del vivere odierno di cui ogni giorno leggiamo sui giornali o su internet (e di cui si parla poco in tv): lo stress, l’ansia, il raffreddamento dei rapporti umani, le guerre. “Falling in another dimension” o “The race of my life” parlano del cosiddetto “logorio della vita moderna”: i ritmi sempre più frenetici, spesso insostenibili; “God is evil (like the devil)” parla di quelle persone di chiesa – di tutte le Chiese – che si nascondono dietro la religione per perpetrare la loro malvagità; “Scream and die” parla dell’occupazione sovietica in Afghanistan degli anni ’80, citando anche dei versi dall’antologia di poeti afghani intitolata “Versi di fuoco e di sangue”; “Antarctica” parla del gelo all’interno di una coppia. In questo periodo ci stiamo cimentando con il nostro primo testo tutto in italiano ed è un’esperienza davvero divertente, perché sta avvenendo in modo del tutto nuovo: per la prima volta anche le parole di una nostra canzone nascono come finora era nata la musica, cioè con il contributo di tutti. Chi suggerisce una rima, chi inverte due strofe, chi sostituisce una parola…

In alcuni passaggi del disco mi è parso di sentire un tratto ben specifico, nello stile e anche nella voce. Se prendiamo ad esempio ”God is Evil...” si capta, inizialmente, una certa affinità con i Doors (sembra di risentire Manzarek e Morrison). E’ solo un errato feeling da primo ascolto? Se no… è qualcosa di inconscio o di ricercato?

Come ti dicevo prima, non abbiamo mai detto tra di noi: “Ora facciamo una canzone in stile Tizio” o “Qui ci metterei un bel passaggio in stile Caio”. Tutto avviene sempre di getto, in modo molto istintivo. Così è successo che mentre imbastivamo “God”, riascoltandoci ci siamo resi conto che suonava effettivamente doorsiana, ma per un caso. Allora ci siamo detti: “Perché non calcare la mano in questa direzione, per farne proprio una sorta di omaggio?”. Del resto, si tratta solo dell’inizio, poi al primo cambio il sound si trasforma completamente. Allo stesso modo, il finale sempre di “God” vorrebbe essere un omaggio ai Quicksilver Messenger Service, un’altra band che molti di noi, all’interno della formazione, ascoltano, ma di certo meno famosa dei Doors a livello mondiale. Potrei dirti che sicuramente i Doors o i Quicksilver fanno parte del nostro DNA e del nostro percorso di crescita interiore, ma né più né meno, in fondo, di decine e decine di altri artisti e band, dai Genesis ai Rush, dai Led Zeppelin ai Queen, dai Marillion ai Simple Minds, da Kate Bush a Peter Gabriel, dagli Steely Dan ai Toto… e chissà quanti altri!

Che tipo di resa riuscite ad avere nella proposizione dell’album in fase live?

Come forse avrai notato, il CD inizia con i 4 colpi delle bacchette, proprio come un concerto. Ecco, li abbiamo lasciati apposta, perché volevamo che tutto suonasse più “live” possibile. Non abbiamo suonato mai a metronomo, quasi tutto è inciso in presa diretta, sovraincisioni ridotte al minimo indispensabile. Certo, quando sei in studio la tentazione di “infiocchettare” il tutto c’è, ma abbiamo aggiunto soltanto minimi tocchi assolutamente ininfluenti per la resa generale delle canzoni. Quando siamo entrati in studio da Alessandro Mazzitelli per registrare “Duck in the box” portavamo già live tutte le canzoni da 2 o 3 anni e i nostri amici più cari, che già conoscevano il repertorio, hanno notato tutti che ascoltando le canzoni in concerto, in sala prove, in studio durante la registrazione o sul CD non c’è quasi la minima differenza.

Duck in the Box” è neonato ed ancora privo di distribuzione. Che idea avete dell’attuale music business? Internet è sempre un aiuto per chi vuole proporre la propria musica?

Di certo registrare le nostre canzoni e “parcheggiarle” su qualche sito tipo iTunes o Amazon avrebbe avuto dei costi molto più contenuti, invece fare una confezione con un booklet tutto fotografico da 12 pagine, come abbiamo fatto noi, ci è costato ben più caro. Costi che sapevamo in partenza di non ammortizzare. Ma noi siamo dei vecchi nostalgici feticisti. Quando sono andato a ritirare le copertine in tipografia, per prima cosa le ho annusate. Trovo che oltre all’ascolto, l’esperienza visiva/olfattiva/tattile che si ha con un disco sia un’eccitazione impagabile. E penso anche che, nonostante il mondo discografico oggi stia soffrendo parecchio, per ogni ragazzino che si scarica la pop-song usa-e-getta sul telefonino, ci sarà sempre un vecchio collezionista nostalgico che si accarezza il suo nuovo acquisto, magari anche in vinile. Il disco come oggetto di culto non morirà mai. A tal proposito ora ti svelo un piccolo segreto: prova a immaginare i primi 3 brani di “Duck in the box” come un lato A: c’è una partenza veloce (“Falling in another dimension”), un lungo brano centrale portante (“My gladness after the sadness”) e un momento più d’atmosfera che poi sfocia in un crescendo finale di facciata (“It will be the end”). E ora fai lo stesso gioco “sognando” gli altri 4 pezzi come un lato B: un’altra apertura di facciata veloce (“God is evil”), un altro brano centrale articolato in vari movimenti (“The race of my life”), di nuovo un momento d’atmosfera (“Antarctica”) e il crescendo finale (“Scream and die”) che chiude l’album in modo molto solenne. Quando progetto una tracklist non riesco a esimermi dal concepirla su due facciate; così ho iniziato a metabolizzare la mia prima musica da ragazzino, sui vinili e le cassette, e ancora oggi non so e non oso fare diversamente.

Che tipo di rapporto avete con la sperimentazione e con le nuove tecnologie in genere?

Scarso rapporto, come ti dicevo prima. La tecnologia è fantastica perché ti consente di sostituire con due tastiere da 5 o 10 kg l’una un Hammond e un Polymoog da diversi quintali (e se i suoni non saranno proprio gli stessi è comunque l’impatto globale che conta), oppure un mixer digitale ultracompatto con dei canali virtuali assegnabili permette di sostituire quei vecchi e scomodi banchi da 32 piste, o ancora l’editing che fai col computer è ben più immediato e di qualità audio superiore di quanto facevi con gli striduli e fruscianti 4 piste a cassette. Ma a parte quello, le idee non te le dà la tecnologia. Quello che hai voglia di dire lo devi sentire dentro, al massimo le tecnologie di oggi ti facilitano un po’ il lavoro più tecnico.

Esiste un artista o un album che mette tutti voi d’accordo?

No! Nemmeno la musica dei Flower Flesh ci mette tutti d’accordo! Ogni volta che finiamo un brano nuovo c’è sempre qualcuno di noi che risentendolo dice: “Mah, io lo avrei fatto diverso!”. Come dicevo prima i nostri gusti sono molto vasti: Bea, il nostro batterista, viene da diversi contesti acustici, dal latin-jazz, ai cantautori, al blues. Ivan (basso) in questo periodo ascolta molto il versante più cupo e “dark” del prog, dai Riverside, ai Tool, ai Porcupine Tree, agli A Perfect Circle. D.E. è una vera “bibbia del Rock” che ascolta di tutto, da Elvis ai Metallica con tutto quello che c’è stato nei 50 anni in mezzo! Marco (chitarra) nasce con l’hard rock più classico, quello dei Deep Purple, dei Queen e degli AC/DC, ma ha sempre ascoltato tantissimo prog-rock (Splinter, Karmakanic, Bigelf e Spock’s Beard tra le sue passioni più recenti) e tantissimo rock-blues. Io amo il prog-rock classico, quello di Genesis e Yes e dei loro “epigoni” degli anni successivi (Marillion, IQ, Pallas), ma anche tante cose di jazz-rock e di Canterbury Sound, tanta new-wave anni ’80 (Japan, Simple Minds, Level 42, Tears for Fears) e anche tanto AOR, cioè quei gruppi melodici americani tipo Styx e Foreigner.

Provate a sognare (con i piedi per terra) e immaginate il vostro futuro nei prossimi tre anni.

Che dire? Nessuno di noi campa di musica, non siamo più degli adolescenti, non rappiamo, non balliamo e non rimiamo “cuore” con “amore”: sognare di vincere il festival di Sanremo o di avere stuoli di ragazzine adoranti che ci lanciano gli slip sul palco sarebbe alquanto patetico. Ci accontenteremmo di trovare una piccola etichetta discografica “di genere” che ci consentisse di distribuire “Duck in the box” tra i veri appassionati in maniera un po’ più capillare di quanto possiamo arrivare a fare noi attraverso le nostre ristrette cerchie di conoscenze. E magari che questa etichetta ci desse anche la possibilità di effettuare qualche bel live in apertura ad artisti che stimiamo, o nel contesto di qualche festival anche fuori dai confini della nostra regione. Qualcosa di più stimolante rispetto alle serate nei pub della Riviera Ligure effettuate finora, dove peraltro diventa sempre più arduo poter proporre qualcosa di personale e che esca dagli schemi del pop di successo attuale. Volendo guardare ancora più lontano, se tra dieci anni, in qualsiasi parte del mondo, in Giappone come in Scandinavia o in Sudamerica, ci fosse anche un solo individuo, uno studente che mentre scende dal bus al ritorno da scuola fischietta una nostra melodia, un impiegato che sale sulla metro canticchiando una nostra canzone, e costui si ritrovasse per un attimo a pensare: “Eh, però… Forti, questi Flower Flesh!”… Ecco, il mio sogno più grande sarebbe realizzato, il mio piccolo personale traguardo sarebbe andato a compimento.



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