Magazine Informazione regionale

Foggia, Radio Ghetto e la colazione al Grand Ghettò

Creato il 28 agosto 2014 da Davideciaccia @FailCaffe

Foggia, Radio Ghetto e la colazione al Grand GhettòAntonella ha passato 10 giorni nelle campagne vicino Foggia dove i braccianti africani vivono quasi autonomamente in una comunità, e dove la rete campagneinlotta ha creato “Radio Ghetto”, una radio dal cuore africano. Ecco una delle esperienze di volontariato più interessanti da fare in Italia.

 

di Antonella Rizzello

Il mio mattino al Ghetto si apre sempre allo stesso modo prima di cominciare a far la radio, caffè Touba e un begnè, delle strane pietanze: la prima è un misto del nostro caffè con del pepe, o così pare; potresti pensare sia tradizionale, ma non lo è: il consumo su larga scala si è diffuso solo negli ultimi anni, soprattutto in Senegal, perché con la recessione l’importazione di altri prodotti è troppo costosa e adesso ci si accontenta del proprio e lo si trasforma in tradizione. Però, che strano destino, adesso il diffuso uso di questa bevanda ha costretto i punti vendita Nescafè senegalesi a cambiare i propri prodotti, introducendolo nel mercato. Il caffè Touba è un infuso legato alla ritualità musulmana, un nuovo gusto introdotto anche nei bar delle nostre città italiane più multietniche, un continuo scambio tra l’occidente e la terra nera, al gusto speziato.

E poi il begnè, o gatò: porta già nel nome la mescolanza di cui è frutto, la colonizzazione francese gli ha dato il nome che ricorda il più famoso bignè parigino, ha più o meno la stessa forma, ma gli ingredienti sono quelli tipici della cultura subsahariana, sembra che quella “e” al posto della i voglia significare tutto questo.

Anche questa mattina la stessa colazione, anche se abbiamo gli occhi più affaticati, con poche ore di sonno prima della sveglia. Nella cultura musulmana la colazione al bar non è proprio la consuetudine, ma a noi bianchicce è concessa: papà Diop, ormai lo chiamiamo così anche noi il proprietario del ristorantino principale, porta esclusivamente per noi i tavolini fuori dalla sua baracca-ristoro e lì comincia la giornata con ogni nuova faccia che incontrandoti ti chiede cordialmente: “Bonjour, ça va?”.

Mi dicono che qui sembra di essere nelle periferie di Nairobi, io in Africa non ci sono mai stata, ma mi dicono sia meglio di questo. C’è qualcosa di bellissimo, di affascinante, ma anche l’incredulità che accada a 15km da Foggia e che sia per i pomodori, e non quelli degli altri ma quelli che compri nella salsa al supermercato ogni giorno; e poi penso che l’acqua corrente, l’elettricità o almeno la fogna non la negherei a nessuno.

La notte prima era successa una cosa particolare, mi son svegliata nel cuore della notte, era l’una e mezza, perché nel Ghetto si va a dormire presto, per chi va a dormire, sennò non ti addormenti affatto. Il ghetto diventa una discoteca a cielo aperto e poi la notte compaiono protetti dal buio anche i bianchi, di quelli peggiori, che vorrebbero introdursi nei bordelli senza destare sospetto e poi al mattino borbottare nelle loro confortevoli case che i neri ci rubano il lavoro, ma non è così semplice, i bianchi nella notte si vedono. Per chi invece è stanco, per chi ha lavorato tutto il giorno, la musica a tutto volume si trasforma in una dolce ninnananna, o semplicemente non senti nulla, appoggi la testa sul cuscino e sprofondi nel sonno ristoratore.

Comunque la notte prima, come capita per chi deboluccio come me ha mangiato la carne con le cipolle piccanti per il quarto giorno, ho avuto un forte desiderio di incontrare la natura per restituirle quanto presole in precedenza. Sbucata fuori dalla nostra umile baracca, ho trovato sotto la verandina una faccia sconosciuta: nero come la notte, non si riconosce facilmente, ma ormai dopo una settimana sensibilizzi lo sguardo e riesci ad individuare meglio le differenze, ma lui mi sembrava davvero sconosciuto: “ Chi sei?”, “Io” risponde; penso sia legittimo chiedere “io chi?” a quel punto, ma non lo faccio, gli chiedo invece se avesse bisogno di qualcosa, ma ripensandoci un secondo dopo ritengo di non potergli dar nulla e spaventata richiudo la porta alle mie spalle.

Nella baracca si scatena il panico; siamo solo in due, bianche, fuori ce n’è uno, ma è nero, qui se urli, nessuno viene ad aiutarti: si sa, nei momenti di panico i fantasmi più spaventosi sono i primi a fare capolino nella mente dei suggestionabili. Dopo aver escogitato una serie di modalità di fuga improbabili, pensiamo di chiamare Ibrahim, uno dei ragazzi più fidati. Arriva in pochi minuti anche se abita dalla parte opposta del ghetto, noi in quella maliana, lui in quella ivoriana.

Entrato nella baracca ci trova terrorizzate nei nostri sacchi a pelo: sembra incredulo, però anche un po’ divertito. Io gli chiedo spiegazioni del tipo lì fuori, ma lui incrociandolo poco prima non gli ha chiesto nessuna spiegazione. Sotto nostra spinta esce per comprendere le mosse della losca figura e lo caccia per tranquillizzarci, poi rientra e comincia a parlare: è così gentile con noi, non riesco a credere che abbia tutta questa voglia di spiegarci anche se tra due ore dovrà già esser pronto per andare a raccogliere i pomodori sotto al sole per le successive 10 ore. Poi lo pagano 3euro e cinquanta per ogni cassone riempito, a cottimo si dice, come nel medioevo, da cui togliere 5€ per il trasporto, che poi il cassone contiene 300kg, che poi non è così facile sotto il sole.

Lui si siede sulle nostre rimediate brandine, ci dicono le peggiori del ghetto, e prova a spiegarci: qui (che è un po’ come lì, in Africa, anche se l’Africa è grande dice, quindi per lo meno nella sua zona), non c’è questa profonda distinzione tra il mio e il tuo, non è così strano che anche uno sconosciuto trascorra la notte sotto la baracca di un altro.

Lo sconosciuto era appena arrivato al Ghetto, è del Ghana, ce ne sono pochi della sua zona, “si sentiva perso” dice Ibra, “forse voi gli ispiravate fiducia ed era venuto a pensare sotto la vostra baracca”. A me sembra strana questa cosa, adesso ci si difende sempre dietro questa cultura, è uno scudo potente contro ogni critica: “eh, da noi funziona così, per te è strano, per noi è normale”, ma non sono gli unici ad averlo questo vizio , ma questa è un’altra storia.

Dico ad Ibra di non essere ingenuo, di dirci la verità, che qui tutti ci guardano, che noi siamo indifese contro 1500 persone dal colore della pelle diverse e che, anche solo per il fatto che sono lì, di sicuro non devono passarsela così bene.

Tutti i timori e le ansie taciute dal mio arrivo prendono forma per un solo breve incontro incongruente.

A questo punto quasi un po’ offeso, in questa posizione liminale tra noi e loro mi dice che anche nel Ghetto c’è un ordine: si, è vero che ci sono i bordelli e che la notte il ghetto diventa una discoteca a cielo aperto, ma qui non succede mai nulla di grave. Il controllo c’è, non è stabilito per legge, non c’è un tribunale, ma la responsabilità di ognuno è un forte giudice, mi chiede: “ti sei resa conto che, seppure in una situazione di così forte precarietà, non è mai successo nulla? La gente qui ci tiene a lavorare, a tirare dritto, è già così difficile entrarci nel territorio italiano, perché mai uno dovrebbe far del male a te e rischiare l’espulsione? E poi in assoluto perché dovrebbe farti del male? Voi italiani siete qui per un motivo e ve ne sono grati, certo, non tutti lo capiscono, ma da noi funziona così: l’altro, anche se con la pelle diversa, si cerca prima di capirlo”.

Il caffè e il begnè sono buonissimi, alla solita domanda di ognuno quel giorno io rispondo: “ça va très bien, je suis contente d’être ici”.

Radio Ghetto e Campagneinlotta


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :