Foglie

Da Fiaba


Venerdì 05 Ottobre 2012 16:04 Scritto da marco.ernst

Tutto cominciò in primavera: anzi, un po’ prima, vale a dire alla fine dell’inverno.

Eh sì, l’inverno era stato duro, come si suol dire, ma ora si avvicinava alla fine, le giornate si allungavano un poco ogni giorno e la luce aveva un’altra sfumatura.

Gli alberi del bosco si svegliarono dal loro lungo letargo, i rami neri e nudi tesi verso il cielo come braccia imploranti; poi si accorsero che era ancora presto, che le notti erano ancora gelide e, come vecchi saggi, si riaddormentarono.

Non passò molto tempo che, però, si risvegliarono nuovamente e molti di loro scoprirono sulle loro membra antiche piccole gemme verdi chiaro: un impeto di gioventù che veniva a dare gioia e voglia di vivere ai vecchi saggi del bosco.

Allora i rami rivolti verso l’alto non apparvero più come una supplica disperata, ma come un segno di devozione e ringraziamento: anche per quell’anno il loro verdeggiare avrebbe nutrito le vecchie membra dei giganti.

Dopo le gemme comparvero le prime foglioline: quelle sciocchine! Ad ogni alito di vento che potava loro le notizie del bosco, il loro mondo, subito diventavano pettegole, fremevano tutte di curiosità, di novità ed era tutto uno stormire, un bisbigliare e raccontarsi ciò che avevano saputo.

Sciocche, pettegole, spensierate e incoscienti come sono quasi sempre i giovani.

Poi, con l’avanzare della stagione, divennero più grandi, più adulte e i loro discorsi bisbigliati si fecero più seri, le loro voci mosse dal vento più profonde.

La primavera avanzava velocemente, ora il bosco era tutto un verdeggiare e spuntavano anche i primi fiori.

I legni antichi avevano ritrovato in pieno il loro vigore e non sentivano affatto l’età: anzi si sentivano nel pieno delle loro forze e nel massimo punto di vigore della loro esistenza.

Il letargo, gli acciacchi, il freddo patito dell’inverno erano un ricordo lontano: era primavera erano tutti felici, piante, fiori, animali e uccelli che potevano fare il nido fra la frescura delle fronde rigogliose.

Poi anche la primavera passò e venne l’estate, che nel bosco umido non è mai torrida, non secca le piante; i tronchi erano gonfi di linfa preziosa e anche le foglie ne trasudavano una gran quantità.

Erano le stagioni, era la natura, era il meccanismo perfetto che si perpetuava nel tempo, immutabile e immutato.

E gli alberi mettevano un nuovo anello e accumulavano nutrimento per quando sarebbe arrivato l’inverno, il signore del gelo, a dettare la sua legge, anch’essa immutabile e inesorabile.

Le foglie avevano raggiunto il loro massimo di crescita e davano frescura e ristoro al bosco, però avevano oramai raggiunto il loro acme e da lì in poi sarebbe iniziato il loro declino, dapprima lento, poi sempre più veloce, fino alla loro morte inevitabile, affinché le nuove generazioni potessero prendere il loro posto, rinnovare il lavoro che loro, stanche, non sarebbero state più in grado di svolgere.

Era una stagione breve, ma per loro, che non avevano termini di paragone, era tutta una vita: era sempre stato così e così sarebbe sempre stato.

Loro erano le operaie dell’ecosistema e sapevano che il loro compenso sarebbe stato solo quello di esistere per quella loro stagione intensa fatta di vento, di racconti, di piccole gioie e tanta fatica.

Poi, un giorno, all’improvviso, una foglia impallidì, divenne gialla, malata, morì e cadde al suolo.

Poi un giorno un vecchio cercatore di funghi entrò nel bosco col suo cane e vide un ricco tappeto che ricordava quelli esotici che aveva visto nelle case dei ricchi: un tappeto di foglie gialle, rosse, marroni, ma tutte inesorabilmente morte o morenti.

Allora l’uomo corse a casa, prese la cesta, il bastone e tornò nel bosco: in mezzo a quelle creature agonizzanti sarebbero spuntate nuove vite, i funghi e lui attendeva solo quel momento.

E il vento soffiò ancora, ma adesso era più freddo e non cantava canzoni e non portava notizie dal mondo esterno: fischiava ed al suo richiamo le foglie si lasciavano cadere rassegnate ed attendevano la fine a terra, raccontandosi storie stantie della loro stagione migliore, senza poter più, dalla loro posizione, vedere altro che terra ed insetti.

L’estate era finita, l’autunno arrivato ed ogni giorno era sempre un po’ più corto ed ogni giorno era sempre un po’ più freddo.

Ora il sottobosco era uno spesso tappeto di foglie cadute, irrimediabilmente, senza possibilità di potersi riarrampicare.

Le foglie, d’altra parte, sapevano che così doveva essere e lo accettavano e si lasciavano cadere docilmente, chi prima, chi dopo senza protestare, senza opporre resistenze.

Col passare dei giorni tutte si accasciarono al suolo, ma in ogni cosa c’è sempre un ultimo e sull’ultimo albero rimase l’ultima foglia e decise che no, lei non sarebbe caduta, si sarebbe tenuta appesa al ramo con tutte le forze, avrebbe resistito anche ai venti più impetuosi, come aveva fatto in primavera quando questi soffiavano forte per portare polline e semi lontano.

Era ingiallita, malata, ma non doma o rassegata.

Il padre albero la invitò a lasciarsi andare, cosicché anche lui potesse riposarsi, addormentarsi sperando in una nuova primavera, ma la foglia, testarda, caparbia e ribelle, si rifiutò: “Dovrei cadere, diceva, solo perché non è più stagione? E chi l’ha detto, io sto bene qui; dall’alto vedo tante cose alcune belle, altre brutte, ma ci sto bene e non voglio che la mia vita finisca, perché una sole me ne è stata concessa e non avrò un’altra occasione”.

Quelle sciocchine delle sue sorelle, intanto, giacevano a terra, alcune in mezzo al fango, altre alla polvere e la chiamavano, ridendo: “Dai, su, buttati, è divertente: la nostra stagione è finita, raggiungici!”.

Stupide, stupide, stupide! Non capivano che quella era la fine di tutto? Ridevano e non capivano che fra poco sarebbero morte, sarebbero marcite, penetrate nel terreno, sparite e nessuno si sarebbe mai più ricordato di loro, ma avrebbero ammirato quelle insulse delle loro sorelle minori, quelle che sarebbero nate la primavera seguente.

Anche l’autunno avanzò e se ne andò e venne l’inverno col suo gelido silenzio e venne la neve e, sfinito, l’albero padre si addormentò, stanco di cercare di far ragionare quella figlia ribelle.

Ora faceva veramente freddo e da lassù, con la nebbia, con la neve a terra, la foglia non vedeva più nulla.

Tremava di freddo, ma non voleva rinunciare a combattere, a portare avanti il suo ideale di libertà e anticonformismo, ma era sola nella sua lotta contro tutti contro gli elementi.

La sua vita non era più vita: era dolore, era inutilità come spesso avviene per i vecchi malati di tutte le specie viventi. Persino gli alberi centenari prima o poi si sarebbero abbattuti al suolo all’improvviso, per un colpo di vento più forte.

Era finita, anche la foglia ribelle capì che era stato inutile lottare, che aveva solo prolungato l’agonia inutilmente, perché in quei giorni guadagnati non c’era più gioia.

Cercò di piangere il suo dolore con un’ultima goccia di linfa, ma i vecchi non han più neppure lacrime perché troppe ne han dovute versare.

Si lasciò infine cadere e sprofondò nella neve e marcì nel terreno e nessuno si ricordò più di lei e della sua lotta.

Foglie, solo foglie.



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