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Folk Metal – Dalle origini al Ragnarök (Crac Edizioni)

Creato il 20 gennaio 2014 da Cicciorusso

folkmetalgiosuePartendo dalla recente intervista a Giulio dei Cripple Bastards, è sorta, in redazione, una discussione sulla profondità del messaggio all’interno del genere metal, indipendentemente (o quasi) dal sottogenere in esame. Riassumendo ai minimi termini la questione, le due ipotesi antitetiche erano:
a) Il metal è musica cafona suonata da cafoni che, per antonomasia, non possono che avere – o manifestare pubblicamente – lo spessore culturale di un tronista di Uomini & Donne
b) il metal è sì musica cafona ma in questa sua essenza dionisiaca risiede la sua capacità di farci evadere dalla realtà e qualsiasi riflessione seria ed intellettuale avviene solo a posteriori ed è opera dell’ascoltatore.
In sostanza si tratta di capire se l’attenzione vada spostata sull’oggetto o sul soggetto perché qualsiasi fenomeno culturale, anche il più ignobile e becero, è in grado di produrre una riflessione che lo investe su più livelli. Il succo del discorso non è capire se il metal sia cafone o meno ed in che misura, quanto capire quale sia il vostro punto di vista e sotto quale angolazione abbiate deciso di analizzarlo. Dico questo perché dal mio punto di vista, il folk metal è quanto di più interessante sia stato prodotto ed etichettato in ambito metal da almeno vent’anni a questa parte. Tempo fa feci ascoltare ad un mio collega sulla quarantina e, anche per ragioni meramente anagrafiche, legato in modo viscerale al metal degli anni ottanta, una serie di gruppi folk metal. Il suo parere era che si trattasse di una combinazione ripetuta all’infinito di Iron Maiden + tastiere che riproducono un qualche strumento tradizionale del paese d’origine di quella o quell’altra band. È, con ogni probabilità, lo stesso tipo di risposta che darei io se qualcuno mi facesse ascoltare le nuove tendenze della musica rap sperando che io colga un’evoluzione rispetto al passato o un riferimento contemporaneo e non un semplice ed indistinto rumore di sottofondo con uno che biascica termini incomprensibili mentre minaccia gente a caso con una pistola di plastica.

Il punto di vista adottato da Fabrizio Giosuè nel suo “Folk metal – Dalle origini al Ragnarök” è quasi etnografico: una copiosa raccolta di materiali catalogati con certosina precisione per riconsegnarci una vera e propria enciclopedia del folk metal mondiale. La mole di informazioni è a dir poco impressionante e le schede sulle band vanno oltre la fredda scansione di dati ed eventi ma sono impreziosite da una incredibile quantità di anedotti, curiosità e QR codes per ascoltare dal proprio smartphone i pezzi citati, che testimoniano una passione autentica e genuina verso il genere. Suddiviso per aree geografiche, largo spazio viene dato alle varie scene europee, con uno sguardo verso est ed una breve rassegna sulle realtà latinoamericane e dell’estremo oriente, oltre ad una serie di appendici finali dedicate ad alcuni personaggi che hanno contribuito, in qualche misura, alla formazione di un’identità del movimento. Meno convincente il tentativo di delimitare il campo, proponendo una distinzione tra folk metal e derivati, ma qui si torna al discorso di prima sulla soggettività dell’approccio: dubito che fosse nelle intenzioni dell’autore aprire un dibattito accademico sulla categorizzazione dei generi. Più interessante la considerazione finale sull’implosione del folk metal, così come avvenuto in passato per altre mode più o meno di passaggio nel panorama musicale, che offre lo spunto per una riflessione sulle reali possibilità che il genere abbia di sopravvivere a sé stesso senza fare la fine, tanto per citare un esempio dello stesso Giosuè, del power metal che imperversò a cavallo tra gli anni novanta ed i primi anni duemila. Al netto di tutte quelle band tecnicamente limitate o che si sono avvicinate a questo tipo di sonorità per mere ragioni di opportunità, il folk offre una sterminata possibilità di approfondimento e di crescita, sia per quanto riguarda l’aspetto musicale che sul versante dei testi. Non si tratta soltanto di aggiungere uno strumento in più, quanto di studiare, riscoprire e portare ad un pubblico più vasto un patrimonio che da sempre è stato di esclusivo interesse, nella migliore delle ipotesi, di qualche etnomusicologo nostalgico oppure relegato a fenomeno di costume per sagre paesane. In questo senso, una sua deflagrazione o un suo radicale ridimensionamento non sarà prodotto dalle potenzialità insite nel genere stesso, quanto nell’incapacità dei protagonisti di comprendere pienamente il potenziale a disposizione. E, se fosse vera questa previsione, allora sarebbe altrettanto plausibile la prima ipotesi riportata all’inizio di questo articolo.



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