La pelle che abito è un film che sposa come altri di Almodovar un'ottima fotografia, realista e lucida; una ossessione forte per il dettaglio, inserita in un contesto drammatico dove tutti personaggi si muovono a meraviglia e il paradosso regge il peso della pazzia che trasuda ogni secondo. Una ricostruzione perfetta spazio-temporale intrappola le domande dello spettatore fino alle verità spiazzanti prima di un finale tanto scontato quanto inevitabile. Anche se trama e ambientazioni non hanno niente a che vedere con Crash, è la stessa idea di locali fuori dal tempo e di spazi talvolta troppo asettici a rendere il film per lunghi tratti angosciante. Sono due pellicole malsane dove si insegue la logica di una follia che da una parte è l'ambizione di ricondurre il tutto al rapporto uomo-macchina, dall'altra un tratto sull'etica delle scienze e della chirurgia plastica e su quei doppi fondi sconosciuti di ciò che è la medicina, nel senso più esteso del termine, oggi, un'idea di ricongiungere le ambizioni della gente ed il rapporto con il proprio corpo e quello degli altri.
Ovviamente non è tutto lì, ed è difficile intendere quante porta possa aprire nella nostra testa un film come questo, che utilizza uno stratagemma per parlarci di una questione finendo per farci riflettere su altro. Ma Almodovar è bravo, non dimentica di abbozzare al sentimento umano, non solo alla sua follia, ma anche alla volontà di primeggiare e di possedere, di comandare e di prevaricare. Cita costantemente la vendetta, cardine di tutto il film, così come l'amore, il sentimento, tutti inquadrati in un'ottica folle e naturale allo stesso tempo. Non vi dirò se (secondo me) è un bel film o no, vi dirò di andarlo a vedere, di pazientare sui momenti che sembrano appesantire il tutto e di gustare come la telecamera scopra piano piano tutto il noir che spinge con forza per fuoriuscire dalla trama. Poi il giudizio potrà rimanere anche eternamente sospeso, ma sarete convinti di aver fatto un viaggio in un luogo tanto familiare quanto assurdo e sconosciuto e di non essere più convinti che il mondo là fuori sia popolato, almeno ogni tanto, da persone "normali".