Che cosa è più importante? La cosa detta, oppure come questa viene detta?
Mi rendo conto che la maggioranza di chi legge queste righe si aspetterebbe degli interrogativi più elevati, perché questi non sono in grado di tener sveglia la gente. Ma il sottoscritto si dedica a questo genere di argomenti.
Se devo giudicare un autore da come scrive, devo ammettere che il buon Dostoevskij ne esce maluccio. Vogliamo confrontarlo con Flaubert? Lo so, il russo è viscerale, potente, lacerato, eccetera eccetera. Però la sua prosa spesso tende a eccedere. Non avete mai avuto l’impressione che certe parti avrebbero persino più forza se fossero scritte in modo più accurato?
C’è da tenere presente che Dostoevskij spesso lavorava con l’urgenza delle bollette, o sotto ricatto di editori senza scrupoli che minacciavano non solo di non pagarlo. Ma di non riconoscergli neppure i diritti sulle eventuali opere future.
In queste condizioni fu scritto “Il giocatore”, per fare un esempio.
Non è neppure da escludere che i traduttori italiani abbiano in qualche caso “sistemato” la faccenda; la traduzione può anche essere una sorta di editing. Basta vedere cosa ne è stato de “Il nome della rosa” quando uscì sul mercato statunitense: furono eliminate le parti più “difficili”. In Germania procedimento diverso: furono “aggiunte” delle parti perché il traduttore era pagato a riga…
Ma in generale la cura e la bellezza che si riscontra in ogni frase di “Madame Bovary” non ha pari. Non te la prendere, Fëdor…
Però l’autore se è di talento riesce a superare se stesso, i propri limiti, e ci consegna un capolavoro. Forse sono proprio i limiti che permettono una illuminazione persino più potente. Perché quello che conta è… quello che dice.
A questo punto si potrebbe azzardare la conclusione: con questo modo di ragionare sintassi e grammatica possono essere messe in secondo piano? Non scherziamo.
Mettereste in secondo piano la qualità dei materiali nella costruzione di una scuola? Spero di no. È dimostrato in maniera quasi scientifica che quando l’occhio del lettore inciampa in un refuso, per un attimo l’incantamento si interrompe. E accade ogni volta che sul proprio cammino compare un errore. Meno accade, meglio è. Perciò sintassi e grammatica devono essere accurate. La forma può essere claudicante, magari confondere il parafango con il paraurti (se non ricordo male Flannery O’Connor in un suo racconto fece quell’errore). Ma si tratta di dettagli.
Qualcuno potrebbe pensare che questo modo di affrontare il “problema” della forma e della sostanza, rappresenti una formidabile scappatoia che si allestisce sempre per gli scrittori. Perché ci ricordiamo che a scuola ci dicevano, davanti a bizzarri tentativi di prosa:
Non sei Manzoni.
Affrontiamo la verità: è vero. Nessuno di noi è Manzoni. Però al di là del rimprovero anche un poco altezzoso, c’è una profonda verità. Perché l’oggetto di quella scrittura scolastica è qualcosa di molto elementare, si tratta di un tema basato su un argomento piuttosto banale. Scrivere invece un racconto oppure un romanzo è un mestiere differente. Perché la differenza che non si percepisce a sufficienza, è che si tratta di un mestiere, mentre la maggior parte di noi lo affronta come se fosse un passatempo. Per questo la forma scivola in secondo piano (tanto ci sono gli editor), a favore però di una sostanza della stessa qualità di quella: mediocre.
Non c’è quindi nessun trattamento di favore per chi scrive, né alcun desiderio di giustificare Dostoevskij e i suoi eccessi. Si tratta invece di una constatazione: se avesse avuto un editor probabilmente i suoi romanzi avrebbero un centinaio di pagine in meno. Se le condizioni di lavoro alle quali era costretto fossero state migliori, quei romanzi avrebbero cinquanta pagine in meno.
Però lui pensava. Non affrontava la pagina come una scampagnata. Quello che diceva, e dice, offusca i limiti della sua prosa, li spinge in secondo piano. Certo, se avesse avuto la bellezza di Flaubert sarebbe stato meraviglioso. Ma alla narrativa non si può chiedere di essere utile, o perfetta. Bensì di essere viva.