Certo, questa perdita della dimensione originaria apre nuove divertenti e interessanti vie a nuove storie, nuove contestualizzazioni, nuove decifrazioni, ardite connotazioni, questa volta tutte a libera disposizione dell’osservatore, che può semplicemente godere con animo surrealista degli accostamenti incongrui che vede, o intervenire con sensibilità narrativa razionale costruendo storie e spiegazioni adeguate, nelle quali il mistero viene spiegato. Ma al di qua di questa lettura creativa e soggettiva, il senso razionale di queste immagini ci resta ottuso.
Benvenute allora queste foto orfane di spiegazione, perché ci costringono a riconoscere che le fotografie non parlano mai da sole. Che il loro significato, in massima parte, risiede fuori dalla cornice delle forme visibili rimaste impresse sulla sua superficie. Che il significato non si stampa mai nell’immagine come fa l’impronta del referente. Che è questa la prima menzogna della fotografia, farci credere di essere un messaggio compiuto, una frase critta nella lingua universale, a tutti comprensibile. Che siamo invece noi a far parlare le immagini, e ciascuno in fondo lo fa secondo la propria cultura e sensibilità. E questo vale per tutte le fotografie, anche per quelle che un significato proprio, chiaro ed esplicito, sembrano possederlo, sembrano custodirlo dentro l’immagine per rilasciarlo a comando di fronte a una pura e semplice osservazione.
Non è così. Ogni fotografia di questo mondo è un mistero polisemico e ambiguo: e questo mistero è un tranello tanto più pericoloso quanto più è nascosto dietro un’apparente trasparenza. Davanti a qualsiasi immagine ci venga sotto gli occhi, dovremmo sforzarci di compiere lo stesso sforzo di completamento critico del senso a cui questi piccoli rebus senza soluzione ci costringono.
Lo dico ancora una volta, temo lo dirò fino alla nausea: le foto non ci parlano, ci interrogano. Sta a noi rispondere”
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