Siamo tutti tristemente consapevoli dell’impatto che la guerra ha su una civiltà; è pertanto legittimo chiedersi se organizzare un’intera mostra su questo tema sia strettamente necessario. Ancora di più, lo è chiedersi se scegliere una domenica di sole (freddo, freddissimo, ma sole) come questa per andare a vedere una mostra da cui dubito di uscire allietata non sia una scelta discutibile.
Eppure l’ora e mezza che ho passato in nelle sale di Conflict, Time, Photography a Tate Modern è volata. Sono arrivata alla fine del percorso con il fiato sospeso, senza quasi accorgermene. Si tratta di foto scattate nei momenti immediatamente successivi ad un evento come la foto del soldato americano in stato di shock fatta da Don McCullin durante la Guerra in Vietnam o a pochi giorni di distanza, ma anche mesi o anni dopo, come quella dell’elmetto in acciaio con un frammento di osso del cranio fuso all’interno dall’esplosione della bomba atomica scattata da Shomei Tomatsu nel 1963, a vent’anni dagli eventi di Hiroshima e Nagasaki.
Pare impossibile ricordare un tempo in cui l’ Afghanistan non sia stato in guerra. Ero alla scuola elementare quando fu invaso dalla Russia e da allora non ha mai avuto tregua. Eppure le foto sulle pareti raccontano di un realtà diversa, fatta di cinema all’aperto, di piscine e negozi – ora ridotti in rovine. Trent’anni e passa di guerra e significa che anche le rovine sono quasi pezzi di storia esse stesse, con strati diversi di distruzione che li rende simili ai cerchi di un tronco di un albero…
Le rovine delle città di Charlestown e Atlanta rase al suolo durante la Guerra Civile Americana (1861-1865), quella tra Stati Uniti d’America al Nord e gli Stati Confederati d’America al Sud o quelle della Cattedrale gotica di Reims dopo la Prima Guerra Mondiale, non sono diverse da quelle lasciate anni dopo a Kabul o Sebrenica. Sono solo catturate con mezzi più sofisticati.
Le foto in bianco e nero dei piloti kamikaze giapponesi – giovani, giovanissimi e morti a centinaia pensando di fare la cosa giusta (e morire era comunque preferibile al disonore portato dal rifiutare di farlo…) sono inquietanti, così come lo sono quelle dei luoghi in cui, durante la Prima Guerra Mondiale, i soldati inglesi, francesi e belga che disertavano (alcuni poco più che adolescenti) erano fucilati all’alba dai loro commilitoni. Capitava anche in Italia.
Il potere evocativo della fotografia è immenso, ti costringe a guardare alle cose dal punto di vista del fotografo. E a volte le cose fotografate non sono belle. Ma questa mostra lo è, per quanto sembri assurdo mettere nella stessa frase il termine “guerra” e l’aggettivo “bella.” Ma non nego che sono stata felice di tornare fuori, all’aperto nel sole freddo di Febbraio.
Conflict, Time, Photography
fino al 15 Marzo 2015