Il visitatore ideale per molti direttori di museo è quello che entra, compra il biglietto e poi se ne esce per mai più tornare. Il visitatore ideale non pretende di guardare le sale, commentare sull’allestimento, fare battute sulla comprensibilità e, all’occorrenza, sulla correttezza delle etichette e degli (scarsi) cartelli esplicativi. Se per caso esiste una guida umana, il visitatore non collassa al sentire tante fesserie propinate al volgo, né sghignazza per le pompose vuotaggini della voce dell’audioguida. Soprattutto non pretende di acquistare un catalogo aggiornato, in cui vi siano tutti i pezzi esposti e, dio non voglia, pensi di poter fotografare liberamente. Il furbastro così non comprerebbe le poche e spesso sbiadite cartoline, pensa il rigido funzionario. In sostanza, il visitatore ideale non deve scocciare, perché la cultura è per pochi e selezionati (tra amici e parenti) eletti.
Se, come fa spesso la sottoscritta, viene ricordato che i musei sono pagati con i soldi delle tasse del visitatore-contribuente, bene, questa è fonte di grande irritazione per l’irriguardosa osservazione. Parlare di soldi non è chic. Queste note scaturiscono da un breve ma sentito scontro con il vice direttore e la tremebonda ‘facilitatrice culturale’ , timorosa di perdere il posto, al Museo Archeologico S. Caterina di Treviso. O meglio, la Sezione archeologica dei Musei Civici di Treviso, recentemente riallestita nella moderna sede di Santa Caterina, un ex convento. Non ho mai visto il museo prima del rinnovamento e quindi posso basarmi solo su vecchie foto per il vecchio allestimento, ma l’impressione che ne ho ricavato è che ben poco sia stato rinnovato dal punto di vista concettuale, cioè per quel che riguarda l’allestimento delle collezioni e i criteri di fruibilità per il pubblico. Secondo il sito del museo il rinnovamento del museo è stato affidato a una ditta inglese, ma se il committente dà precise istruzioni, la ditta ha ben poco da fare. L’allestimento rinnovato non trae alcuna lezione dagli allestimenti, spesso eccellenti e creativi, dei musei inglesi, al contrario, il museo dà l’impressione di essere più un archivio di reperti che una ricostruzione culturale del passato. Tanto per dare l’idea, non vi è neppure una foto dei luoghi dove sono state trovate le testimonianze del passato, per esempio la ragguardevole collezione di spade dell’età del Bronzo trovate nel fiume Sile come offerta. Eppure io stessa ho fatto belle foto proprio nella zone in cui sono state trovate. Le spiegazioni delle etichette sono le più tecniche possibile, in ‘archeologese’, ma i manifesti esplicativi sono talmente vaghi che neanche uno sforzo di fantasia (che è la base dell’interesse per l’archeologia presso il grande pubblico e anche presso quelli che decidono di intraprendere la carriera di archeologo) riesce a far collocare cocci e vecchi pezzi di metallo in un contesto comprensibile. Il problema è che i reperti esposti sono stati sterilizzati di qualsiasi contestualizzazione, evirati di significato e depositati in una bara-vetrina. Ma non verrà nessuno a baciarli per riportarli in vita.
Infatti, la folla al museo mentre lo visitavamo si contava nel numero di quattro persone: io, Flavia, un’amica e una donna che dopo aver velocemente scorso qualche vetrina è uscita. In compenso la ‘facilitatrice’ e guida ci marcava a uomo per il terrore che potessimo fare qualche foto di contrabbando e si offendeva mentre noi ci lasciavamo andare ad osservazioni piccanti sul museo e i suoi dirigenti. Alla fine del percorso ci imbattiamo in un personaggio che la guida ci aveva indicato come il referente per reclami (all’idea che volessimo fare un reclamo gli tremavano pure le scarpe). L’ometto, vice-direttore, si inalbera alla mia osservazione che altri musei italiani lasciavano fotografare comodamente, anche col flash (a Roma, a Torino, per esempio) e quindi lui mi doveva citare la legge che proibiva di fotografare a Treviso. Non la Ronchey, che riguarda la fotografia commerciale, anche se molti funzionari la interpretano abusivamente contro la fotografia tout-court. L’omino tentava di intimidirmi alzando sempre più la voce e giungendo anche all’insulto quando gli feci presente che i social network rappresentano una fonte di pubblicità gratis e che la foto amatoriale è un componente essenziale di questa pubblicità ‘bocca a bocca’. Infine, dopo un mezzo passo avanti, forse per darmi uno schiaffo (non alzo mai la voce in certe contese, ma ammetto che le mie battute sono irritanti, soprattutto se fondate sulla realtà), il bulletto si allontanò di corsa. Alla faccia del reclamo che avrei dovuto esporre sulla fruibilità del museo.
Tornata alla biglietteria-bookshop continuo la polemica con i due addetti, mentre compravo tutto il comprabile, cartoline, libri, cataloghi e chiedo se per caso il museo riusciva a raggiungere una media di cinque visitatori al giorno. Ridendo gli impiegati alla cassa mi confermano che spesso sono meno e che se non fosse per i ‘deportati’ delle scolaresche, in certi giorni i visitatori sarebbero zero. Uno dei due impiegati tenta una difesa d’ufficio sul perché non avevo trovato certi reperti nelle cartoline e nel catalogo, nella fattispecie dei tintinnaboli romani a forma di fallo e vagina. Era il motivo per cui, sostenevo io, era necessario lasciare fotografare, perché spesso ciò che mi interessava non era sul catalogo. L’uomo disse che non c’erano cartoline e foto nei cataloghi per via dei bambini: come se i bambini comprassero cataloghi (lasciamo perdere le cartoline, che venderebbero a pacchi). Come mai i bambini, gli chiesi, non possono vedere i falli e le vagine di bronzo in cartolina o in un catalogo comprato dai genitori, ma possono vederli liberamente nella vetrina che ne contiene almeno una decina esposta al museo? Stupefatto l’impiegato volle farsi accompagnare alla suddetta vetrina per verificare di persona. Non ci aveva mai fatto caso. Non poteva estrarre il telefonino per fotografare gli scaramantici oggetti davanti a noi, ma di certo lo ha fatto appena siamo uscite dal museo. (segue)
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