Il tema è identico al film precedente di Bennet Miller, L’arte di vincere, com’è affine il periodo storico (gli anni ’80) ben caratterizzato dalle scelte fotografiche. Il tono e l’epilogo, però, sono nettamente più cupi e malinconici e il film riesce a inserirsi con successo nei canoni del genere senza apparire ingessato: un romanzo di formazione che si serve dello sport per mostrare la crescita, o il tentativo fallito, di un ragazzo e del suo coach ma con un paio di sorprese che vivacizzano le oltre due ore di proiezione Ne citeremo solo una, funzionale al giudizio sul film: il momento in cui Dupont, che promette al suo fiore all’occhiello di farlo crescere in autonomia e liberarlo dall’etichetta di “fratello minore di Dave Schultz”, gli offre della cocaina.
Questo è quello che spesso succede quando due uomini soli, che non sono in pace con se stessi, s’incontrano: rimangono soli e magari il più forte trasmette all’altro i vizi che crede di dominare, rendendolo ancora più debole ed eterodiretto. Un bicchiere di troppo, una sniffata di troppo, la soggezione a un’autorità che non si discute. Mark contro Dave, prima; contro John, poi, e lo stesso John contro il fantasma à la Psycho di sua madre. E poi una risalita velocissima e altrettanto pericolosa, che finisce per toglierti anche quel poco che avevi prima di cambiare rotta.
Foxcatcher è un film che fa della retorica americana il suo perno: una critica ragionata a un mondo, quello del wrestling, specchio di tanti altri, di un paese intero in cui arrivare in cima (si legga: dimostrare agli altri di essere arrivati in cima) è più importante di tutti i sacrifici che s’impongono agli altri, troppo ingenui per accorgersi della fregatura. È l’altra faccia dell’Arte di vincere: l’arte di autodistruggersi, o almeno di rendersi ancora più mediocri di quanto non si fosse già.
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