L’ agonia del capitalismo industriale
Fin dai titoli di testa si ha la cifra stilistica dell’ultimo film di Bennett Miller, dove scorrono le immagini mute di un documentario d’epoca sulla caccia alla volpe, svolta da un gruppo dell’alta borghesia americana in una vasta tenuta di caccia, che dà il senso di un passato aristocratico perduto.
Subito dopo vediamo un giovane che indossa una medaglia d’oro olimpica. Stacco e il giovane atleta è Mark Schultz (interpretato da Channing Tatum), campione di lotta libera, che tiene un discorso davanti a una scolaresca, con tono impacciato, sull’importanza di rappresentare il proprio paese e di vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi. Mark è il fratello minore di Dave (Mark Ruffalo, in una prova molto convincente), sette volte campione del mondo e anche lui vincitore dell’oro nelle Olimpiadi a Los Angeles del 1984. Dave Schultz adesso è diventato un allenatore e nella palestra che gestisce allena il fratello che è ancora in attività.
In poche sequenze Miller c’introduce nel mondo di questi due fratelli e ne disegna, con essenziali inquadrature, le due differenti psicologie: Mark è taciturno, indeciso, solitario, insoddisfatto, mentre Dave è un uomo realizzato, con una bella moglie e due figli piccoli, stimato professionista e campione.
La vita di Mark cambia improvvisamente quando riceve una telefonata particolare: il ricco filantropo John du Pont lo invita nella sua tenuta per proporgli di trasferirsi da lui. L’obiettivo è quello di comporre un team di lotta – Foxcatcher – da portare nelle maggiori competizioni mondiali. Il ricco industriale vorrebbe anche il fratello Dave, ma lui rifiuta l’offerta, perché legato all’attività della palestra e alla famiglia.
Inizia così la prima parte della pellicola, dove si sviluppa il rapporto controverso tra il giovane atleta e il magnate.
Tratto da una storia vera, che sfocerà nell’assassinio di Dave da parte di du Pont, Miller utilizza la metafora dello sport per mettere in scena l’agonia di un certo tipo di capitalismo americano industriale, rappresentato dalla decadenza della famiglia du Pont. John è l’ultimo rampollo, senza eredi, legato a una madre anaffettiva, distaccata dal mondo, che ritiene la lotta uno sport inadeguato per il figlio. John soffre un complesso d’inferiorità e in qualche modo è il rappresentante di un mondo morente, quello del capitalismo industriale, e lo stretto legame con la storia degli Usa (dalla Rivoluzione americana – il quadro di Washington e altre foto storiche che ornano le varie stanze della tenuta, in una messa in scena di un passato non più ripetuto e che vive di ricordi – fino ai giorni nostri – il filmino della caccia alla volpe nell’incipit), di un mondo dei Blocchi della Guerra Fredda, della potenza americana, dell’essere patrioti (Du Pont si fa chiamare Aquila, che è anche l’animale simbolo della nazione americana, come a dire che si sente nel profondo un fondatore della patria). Un mondo superato che poi ha visto l’avvento del capitalismo finanziario dei Gordon Gekko (in Wall Street di Oliver Stone) e dei Belfort (in The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese), sotto cui soccomberà senza appello.
La mutazione fisica della ricchezza
Questa decadenza è ben rappresentata da Steve Carrell, attore di commedie, che rende una performance mimetica del personaggio, in una interpretazione drammatica corporea e facciale. Carrel si muove come uno zombi, cammina come se non fosse vivo, in una continua sospensione dello sguardo, obliquo, gli occhi socchiusi. Si riempie la bocca di parole pompose: si definisce più volte “patriota”, ponendo l’accento su “patriota per la libertà”; vuole essere riconosciuto come coach, ornitologo, filantropo, padre della patria. Questo senso di “paternità morale(ista)” lo trasla nei confronti di Mark che cerca di plasmare e di riaffermare il proprio sé stesso attraverso le imprese dell’atleta.
John du Pont è sostanzialmente uno psicotico, che autoalimenta la sua ossessione di affermazione attraverso lo sport, unico campo dove il potere del patrimonio economico può ancora avere un’influenza in un mondo che lo ha isolato, ingabbiato, in una tenuta che diventa la prigione di un uomo solo. Miller accentua volutamente la decadenza morale del personaggio attraverso l’utilizzo di un artificio profilmico per rafforzare l’idea mortifera che percorre tutta la pellicola. Il trucco di Carrell cambia in modo visibile nelle varie sequenze di Foxcatcher: a volte appare come un pesante cerone messo sul volto di un cadavere, soprattutto assistiamo alla modificazione del naso, come se fosse composto da cera che si scioglie, così come le macchie sulla pelle (del volto e delle mani) che aumentano o diminuiscono a seconda della messa in quadro dei vari episodi. Insomma, traspare l’immagine di carne putrefatta, appunto ancora una volta sempre più visibile e incontrovertibile la messa in scena di un morto, di un corpo senz’anima, di un manichino che compie gesti ripetitivi come già programmati verso un finale che non lascia scampo a lui e a ciò che rappresenta.
Lo sport come metafora della sopraffazione.
Il regista americano ovviamente compie un lavoro di elissi narrativa della vera vicenda che ha visto coinvolti i fratelli Schultz e John du Pont, impostando una messa in serie che taglia lunghe fette cronologiche. A Miller non interessa raccontare in modo didascalico un fatto di cronaca eclatante, ma lo riprende per parlare di altro.
Il tema dello sport del resto è al centro della filmografia di Bennett Miller: dopo L’arte di vincere sul baseball, sport per antonomasia della cultura americana, sceglie la lotta come modello di continua sopraffazione dell’avversario, uno sport proletario che rappresenta bene il combattimento per la sopravvivenza del più forte in un agone politico-culturale che si trasforma in metafora della sconfitta del capitalismo alla du Pont.
Foxcatcher lo possiamo dividere in due parti più un epilogo. La prima parte vede la nascita, lo sviluppo e il disgregamento del rapporto quasi filiale tra Mark e du Pont che arriva fino alla vittoria dei Campionati del Mondo nel 1987 a Clermont Ferrand in Francia. Poi, in una seconda parte, quando alla fine Dave accetta l’offerta del magnate americano e diviene l’allenatore del team Foxcatcher. Da qui inizia la mutazione psicologica più intensa tra i due fratelli e du Pont: dove Dave rende prevalente il suo magnetismo e leadership controllata che si scontra contro quella artificiosa e costruita sul denaro di du Pont; il ricco borghese sfoga la frustrazione su Mark che infatti nelle Olimpiadi del 1988 a Seul non riesce a ripetersi, finendo la gara nelle retrovie, pur con l’aiuto affettuoso e determinato del fratello che esautora in modo definitivo la figura del magnate sul fratello e riprendendosi il posto di figura predominante. Ma il cerchio si è rotto. Mark abbandona la tenuta e la lotta e si dedicherà alle arti marziali libere. Dave continuerà a restare come manager del team nella tenuta per molti anni. E qui abbiamo l’ellissi narrativa più ampia, visto che arriviamo direttamente all’epilogo dell’uccisione di Dave da parte di du Pont avvenuta nel 1996.
Lo sport diviene la spettacolarizzazione prima del controllo e poi della sopraffazione, in un cambiamento improvviso con la morte di Dave, che chiude non solo la storia personale di tre esistenze, ma anche la Storia di una famiglia emblema del capitalismo industriale americano.
Del resto, non solo du Pont è un mutante, ma anche Mark, con il suo prognatismo e sguardo fisso e perennemente corrucciato, e Dave, con la sua andatura dondolante, le braccia leggermente piegate, il capo e lo sguardo molte volte obliqui, sono ripresi in primi piani che mettono in quadro i corpi e i volti di tre personaggi che sono maschere, icone di un momento storico colto nel suo cambiamento.
Il linguaggio cinematografico di Bennett Miller è articolato e controllato: ai primi piani dei protagonisti, si alternano i totali degli interni (soprattutto delle palestre), luoghi dove lo spazio è un ambiente delimitato della mutazione sociale tra alto (du Pont) e basso (i fratelli Schultz); alternati ai campi lunghi e lunghissimi della tenuta del filantropo americano, quasi a voler dare non solo un’impressione di isolamento e alienazione dei tre personaggi (soprattutto della vita anomica di du Pont), ma anche una certa distanza di sguardo dalla materia trattata. Uno sguardo da entomologo, scientifico, in un incastro tra le varie sequenze che producono un effetto stroboscopico della diegesi e della sua messa in scena. Una presa di posizione dalla materia trattata che rendono Foxcatcher un elegante e complesso esempio di cinema della mutazione contemporanea e Bennett Miller un autore da seguire con attenzione.
Antonio Pettierre