Non
sembrerà, ma io sono assai sensibile alle critiche che mi muovono i
miei lettori, e proprio oggi uno di loro mi ha rimproverato il «grave
errore»
di usare, per l’«azione
politica di una nazione»,
lo stesso metro di giudizio che potrebbe anche essere legittimo per
l’«azione
di un individuo»
nell’affermare
che «nel
momento di contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per
onorarlo si debba essere disposti anche a morire di fame».
Anzi, fatemi dir meglio: il metro di giudizio che sostiene la mia
affermazione sarebbe senza dubbio errato nell’analisi
dell’«azione
politica di una nazione»,
ma non è detto che non lo sia pure nel caso di un individuo che
contragga un debito infischiandosene della possibilità di onorarlo,
e dico questo perché sul punto il lettore in questione mi è
sembrato vago, limitandosi a definire il mio giudizio come operante
attraverso gli «strumenti
dell’etica»,
termine che occorre maneggiare con cautela perché assai pericoloso,
e che infatti io cerco di evitare anche quando il contesto basterebbe
a dargli il significato che vorrei gli fosse dato da chi mi legge, e
chi mi legge da qualche tempo non dovrebbe ignorare che per me il
«bene» a fondamento del discorso etico equivale a quell’«utile
per il maggior numero di individui» che dovrebbe far coincidere la
regola morale alla norma giuridica. In tal senso, sì, non ho fatica
ad ammettere che l’«utile per il maggior numero di individui» sta
nel fatto che ciascun individuo si assuma fino in fondo la
responsabilità delle proprie azioni, per potersene dichiarare
pienamente libero.
Ora, a me pare che la propria libertà non possa che consistere nel muoversi entro i limiti posti dalla libertà altrui, e che questi
limiti debbano necessariamente essere concordati nella sede di un
contratto sociale, nazionale o sovranazionale, che può anche essere violato, a patto di saperne
subire le conseguenze, e senza avere alcun diritto di lamentarsene. Sarà per questo che, pur riuscendo a cogliere
la differenza che corre tra un popolo e un individuo, presumo che
entrambi siano tenuti ad essere responsabili delle proprie azioni?
Certo, la differenza che corre tra un popolo e un individuo non mi
impedisce di constatare che, per le scelte fatte da un governo, la
responsabilità di un popolo che lo ha espresso sia solo indiretta,
ma in fin dei conti non rimane tutta sua? Nel caso dei greci, è fuor
di dubbio che il debito pubblico sia stato cumulato per le politiche
di governi democraticamente eletti da un popolo che non è stato in
grado di ponderarne a sufficienza le conseguenze.
Bene, il governo
in carica non avrà le responsabilità di quelli che l’hanno
preceduto, questo è perfino ovvio, ma il popolo greco è sempre quello, e non può pretendere
che le conseguenze di scelte errate in precedenza siano emendate in
virtù di un cambio di governo. Del debito che la Grecia ha cumulato
può darsi non abbiano goduto in modo equo tutti greci, su questo non
c’è dubbio, ma è di tutti i greci la responsabilità che questo
sia accaduto, e questo mi pare che destini al solo dibattito interno
l’analisi del come e del perché sia potuto accadere. Non è detto
che da questa analisi possa necessariamente maturare un senso di
responsabilità che riesca a farsi carico di ciò che il passato
chiede all’oggi, ma può darsi aiuti finalmente a capire che
dall’oggi dipende il domani.
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