Frammenti di una vita pre-linfoma.Quando vent’anni erano vent’anni e basta.

Da Romina @CodicediHodgkin

Oggi, spolverando la libreria mi sono soffermata sui ripiani dedicati agli anni universitari.

Mi ha colto una malinconia di quelle che veramente stringono il cuore. Sarà che sono stati probabilmente gli anni più felici della mia vita trascorsa a casa con i miei genitori. Sarà che l’università è stata un’esperienza che ho amato follemente. Sarà che c’era ancora nonno. Sarà che vedevo nonna ogni giorno. Sarà che c’era ancora mia madre. Sarà che sono stati gli ultimi anni della vita così come l’avevo sempre conosciuta. Sarà che sfogliando quei quaderni, quegli appunti e quei libri mi sono resa conto che i primi due anni di università sono stati gli ultimi due anni prima della malattia, che aveva iniziato a manifestarsi già durante il secondo anno ma che mi avrebbe impedito di frequentare il terzo (ma non di dare esami). Mi ha fatto un effetto strano. Non so nemmeno io perché.

Forse perché ricordo bene quegli esami e quei quaderni. Forse perché ancora mi sentivo “giovane”. Per carità, lo sono ancora. Non è che io mi senta vecchia a 28 anni, ci mancherebbe. E’solo che…che quando riguardo quei fogli vedo il momento esatto in cui ho smesso di essere “spensierata” nel senso più giovanile del termine. Esco con i miei amici, bevo qualcosa con loro, gioco con Maschio Alfa come se avessimo 16 anni. Ma da allora ho i brividi ogni volta che ho un colpo di tosse. Schedulo controlli oncologici che purtroppo sono ancora semestrali. Ho sentito il bisogno di mettere le radici quando la maggior parte dei ragazzi della mia età non avevano neanche la minima intenzione di andarsene da casa dei genitori. Per la maggior parte del tempo sono fermamente convinta che era destino che andasse così, amen. Tutto sommato sono felice di come mi vanno le cose. Ma oggi vedere quegli appunti, appunti che sono lì da anni, mi ha fatto un curioso effetto.

Dopo quegli appunti, nulla è stato più come prima. Si, sicuramente arriva per tutti il momento in cui si “diventa adulti”. La vita non regala niente a nessuno. Però, alle volte, avrei preferito che la crescita fosse più graduale, più soft. Quando la linea di demarcazione che separa il giovane dall’adulto è così precoce, violenta e così strettamente connessa al concetto della caducità delle cose umane, al tempo che non è infinito, bhe, è come se venisse strappato violentemente un cerotto che porta con sé anche la pelle.

E ogni tanto guardi il segno del cerotto. Un segno scuro sulla pelle che però è sempre lì, anche se la crosta è caduta. Gli stessi segni scuri che ho ancora sulle braccia, sulla pancia. I segni che son rimasti dove una volta erano i graffi che mi infliggevo per sedare il prurito di una malattia che nessuno capiva o voleva capire. Studiavo per l’esame di tedesco e mi grattavo. Mi preoccupavo solo dell’esame, fino alla fine di agosto del 2005 il mio più grande cruccio era quello, l’esame di tedesco. Meno di due settimane dopo il problema era vendere cara la pelle. Segni. Segni a penna su un quaderno. Segni di graffi. Segni di cicatrici chirurgiche. E quello che ero prima non ero più.

Sono sempre stata convinta che ammalarmi a 21 anni sia stata una grande fortuna. Mi ha escluso da tante responsabilità. Ciò non toglie che alle volte ancora mi fa un po’ male il modo in cui ho imparato a nuotare: venendo buttata giù dalla scogliera senza neanche i braccioli.

Ma è andata così, e allora guardo i miei appunti e sorrido perché quel periodo, tutto sommato, ancora mi scalda il cuore. Ma che studentessa ordinata che ero…

Che poi, alla fine della fiera, i punti sono essenzialmente due:

1) Mi sono ammalata giovane e  lo sconvolgimento della malattia è, in generale, tale da farci a volte dimenticare che una volta siamo persino stati sani.

2) Mi ci è voluto meno a fare chemio che a preparare quel cacchio di esame di linguistica tedesca…