Pubblicato da lapoesiaelospirito su novembre 10, 2011
di Claudio Damiani
L’osservatorio è un poema, o un “romanzo in versi” come ci suggerisce Domenico Adriano nella bandella, composto di quattro sezioni: la prima, la seconda e la quarta sono costituite, ognuna, di dodici poemetti (da ricordare che la prima sezione era già uscita, in plaquette, nel 1989, con lo stesso titolo), mentre la terza sezione è una lettera. Cominciando a leggere colpiscono soprattutto i paesaggi, le vedute. Sono vedute romane, piuttosto periferiche: viene da pensare a Pasolini, ma anche alla vedutistica romana del sei-settecento. Si pensa dunque a un osservatorio astratto, figurato, ma dopo un po’ si distingue, nel paesaggio, un osservatorio vero e proprio: l’Osservatorio astronomico di Monte Mario, e si intuisce che il senso vero del titolo, e della poesia di Dalessandro, è nella letteralità, più che nella metafora, è nella scoperta del mondo come interezza a sé, senza soggetto, come guida anzi, modello, maestro del soggetto (e in ciò Dalessandro è vicino a tanti altri autori che hanno esordito intorno alla metà degli anni ottanta). Si capisce poi, addentrandosi nel “romanzo”, che il paesaggio è uno solo, anzi, più che un paesaggio, è un percorso: il percorso che l’autore compie, ogni mattina, per recarsi al lavoro, e ogni sera, a ritroso, per ritornare a casa. Ogni poemetto è dunque un’uscita – difficile non pensare, per la luminosità delle immagini, all’uscita mattutina dell’Annina caproniana, o alle albe provenzali – e insieme un ritorno, che sempre uguale si ripete, e insieme è sempre diverso, per le infinite variazioni della luce e dell’ora, della stagione e dell’animo (e qui traspare la lezione bertolucciana). L’io del poeta dunque, che tanto era sembrato annullarsi nel paesaggio, ci ricompare davanti nella sua ansia conoscitiva, e nel suo desiderio di pace (il paese di tutta quella luce / si gloria tranquillo), e la ripetitività ossessiva ci svela la natura lirica del libro, che lo avvicina, più che a un romanzo, a un canzoniere (ma anche di Petrarca qualcuno parlò di “romanzo”).
Da L’OSSERVATORIO
IV Parte – MARE DELLE PASSIONI
***
1 (Su queste rive)
Doloroso in queste sere (quando il freddo
si fa pungente il cielo piatto e gonfio
d’acqua pronta a scaricarsi lontano
su quartieri offuscati a occidente
verso il mare e Monteverde sul Pineto
dove i primi colori primaverili e mature
sofferte mimose ingemmano radure,
generosi profumi elargiscono dai lunghi
piani), per chi su quella vista persi
gli occhi e smarrito nell’eco lontana
di voci attardate oltre i declivi verdi
della valletta dei cani e scoppiettanti rosse
azzurre moto (ai declinanti ultimi raggi
con riflessi e riverberi al varco della rete
metallica oltre il ponte e la gran volta
della strada disparenti) presto perse
agli occhi si divide fra l’ansia del ritorno
alla cura infruttuosa (oh con quale
solerte inganno) dell’arido giardino
che da mesi non produce più niente
(ma a maggio nel tepore del mattino
una rosa fiorirà macchiando il pruno
solitario col suo sangue) e un istinto
di fuga (come se libertà da volontaria
reclusione cercasse per amore
o volontà di perdizione); doloroso
in queste sere, bruciante nella viva
carne il ricordo del vuoto (un abisso
e paradiso in cui i corpi al tocco lieve
delle dita tremanti scivolavano) perduta-
mente si ridesta da un’altra trepida
sera di febbraio in cui un uguale gelo
e un’inquietudine serena di nascenti
speranze pungevano l’anima, un vago
avvenire adombrando (e quanta pena
poi che un amore fioriva, il vecchio
e malato minacciando: avrebbe vinto
e si sarebbe imposto per il tempo
d’una falsa primavera
– «oh lunghi ardenti
giorni fatevi specchio amoroso dei nostri
gesti, oh versi brevissimi rampolli
segreti e solari di chi per impazienza
e peccato ora non cura e non sorveglia
la vostra crescita lasciate
ombra e luce inseguendosi tepore
e umidità che spontanei nell’angolo nudo
del giardino chi non sa vi riconosca
testimoni amorosi» –
per finire ucciso
dal proprio furore a inizio estate dopo
una sera agrodolce di fragole e vino,
e una notte d’amaro dolorosa
per chi senza più sonno si stordiva
con immagini e parole), castigo
degli anni avvenire, fino al maggio
(di rondini e rose del maggiore anniversario)
in cui distacco e volontà di guarigione
ci avrebbero salvati o illusi, cuore,
per quest’ora di mortale tenerezza
per i Mani bambini di un domani di vittoria-
morte (se è vita solo la sconfitta)
in cui spento ogni fuoco (incenerito)
avviandosi l’inverno alla sua fine,
i dolci tepori di marzo ritornando
e a tempi più incerti alternandosi
di pigre nubi passeggere nel turchino
della sera su sobborghi e quartieri
popolari oltre Ottavia borghesi della nuova
Cassia verso una meta impensabile,
chi in quel transito (o fuga) perdendosi
sereno apre il cuore – e sedendo
dopo cena a uno scrittoio di buon
legno stagionato lavorato da artigiani
del nord potrà scrivere: su queste rive
io mi custodisco.
***
2 (Mare delle passioni)
Perché nato un nuovo giorno come ogni
giorno levo le vele della mente verso il mare
aperto delle passioni, navigo temendo
e sperando il loro assalto, tremo preso
nel guasto degli anni nel turbine
dei pensieri, avversi venti, furiosa
smania e malinconia mi spingono
a una discesa leggera oltre la porta
angelica del peccato, cuore oppresso
dal peso dell’attesa per l’accorato
amoroso mattutino messaggio di una luce
assiderata traboccante nell’incerta
volontà dell’amore eppure assorto
nella derelizione di quest’ora (mai
azzurro fu più mite mai mattina
più inquietante e feconda di questa era
nata ai miei occhi opachi mai più pigre
nubi dell’anima trascorsero e indolenti
passeggere verso oriente vidi perdersi
e svanire schiarirsi l’orizzonte), mentre oscura-
mente nato lo sconforto, come il viola
dei glicini muri e ringhiere di balconi
e giardini, mi avviluppa e riconosco
nella pallida ombra dei platani nel verde
vivo di nuove foglie una confusa
speranza e un’ansia mite nel tepore
d’aprile vincente (anche se fuori
stagione) come in me quei divergenti
sensi e buie passioni nitore di ricordi
redivivi smanie e idilli giovanili,
presaghe delusioni di più vili anni
futuri.
***
7 (Una musa)
La mia solita febbricola, una musa
casalinga e privata
così poco mondana ma non priva
di civiltà trastulla
la noia con le fragili forme di un’ansiosa
felicità, e con la tenera rosa ottobrina
ritorna la smania di vivere l’amore
giovanile la grazia perduta di un’età
passata, il tardivo pentimento la pudica
speranza, illusione nevrotica di un cuore
già stanco e incubo quieto d’ogni nata
mattutina dilezione, ma la sorte
solitudine adduce mentre calco claudicante
le scene di un mondo di nuovo avviato
all’autunnale sperpero di vita al desiderio
di morte, malinconica attesa che è carne
di futura mestizia carità che non consola,
nel giorno nato uguale e diverso diversa-
mente amato, l’inverno mio teatro
e osservatorio quando a sera anche l’inganno
mattutino si svela rivelandosi volgare
avanspettacolo giostra corteo funerario,
la verità rivelata e corrotta una profana
ascesa ai più infimi abissi del divino
amore, tempesta preparata a redimere
il deserto, una mano due tese a toccarsi
a tentare fortuna: cosa resta da volere
e da scrivere?
***
8 (Il mattino)
Strane voci nell’aria del mattino
festivo destano all’ansia alla pietosa
luce che scalda l’erba e i verdi lauri
del giardino dirada le notturne
brume scioglie la brina uccide i sogni
avviando cuore e mente dal torpore
della bassa pressione uscenti come
il sole dai nembi a fatica l’albanella
dal fitto dei rami – è il tempo incerto
dell’autunno romano quando nei viali
maculati di ruggine strepiti d’ali
e richiami chiassosi di storni dalle chiome
ramate dei platani levandosi a chi sosta
o transita oscurano la vista l’azzurro
mattutino mitissima procella sopra Monte
Mario vaniente oltre le antenne e l’ocra
sporco e vecchio dei Prati – mentre prende
vita la strada e a poco a poco cresce
il frastuono del traffico si anima la casa
si scaldano voci e finestre, ma il rumore
ferisce e risveglia il dolore sopito
di una passata età che si credeva
sepolto nel costato insieme a morte
passioni acerbi inganni giovanili
e quel dolore l’angoscia magra smania
di perdersi nutre come i tiepidi raggi
novembrini l’opulenta magnolia le sue
grasse foglie ondeggianti alla fredda
tramontana, così me tra desiderio
e abbandono oppresso dall’inquieta
sedizione del cuore nella nemica aria
fragrante nell’amorosa luce di un sereno
sguardo poi che ignaro di quanta
tenebra offuschi il mio e i miei pensieri
incapaci d’amore e vita ormai
fuori da ogni partita che ancora
gioventù nei lunghi giorni gioca
mentre a me gli anni sono corti
e difficili, incerti come questo mattino
maturato con passaggi di nuvole
e paure nel cuore nel cielo turchino.
***
9 (Sirena)
Avverrà in questo terso mattutino
cielo di novembre dopo i morti anche la mia
redenzione? la vite risanguina sul viale
vena il verde del muro lo insanguina
la siepe incurabile muore, vacillante
volontà mi sospinge dopo mesi, una sirena
dopo l’altra clamanti insistenti vocalizzi,
nel fresco mattino sereno a fare versi:
clemente quiete nel giardino assolato
e solitario dopo il sonno e la notturna
pioggia, indugio in minuzie ma non devo
disperare se immagini sfocate coglie il miope
sguardo: un nido caduto guscio vuoto
annerito dall’acqua gocce-luci sui tralci
dell’edera brillanti verdi tenere o dorate
escrescenze aghi e foglie la pozza l’invaso
d’acqua morta e liquami il filare dei lauri
il rastrello e la forbice l’erba tagliata,
una lumaca vi traccia scie d’argento,
la giornata si scalda le nostre tartarughe
passeggiano caute sulla terra umida
il traffico scorre, una piena anche la nostra
vita, passano cirri e stagioni noi restiamo
abbandonati nei giorni deserti rubricati
nelle vecchie istantanee di un album
che a sera la mente risfoglia, l’età è mondo
e passato una pozza d’acqua scura
dove trote argentate crescono i ricordi
nuotando e ingrassando sfuggenti
l’esca e l’amo del presente della mia
poesia.
***
12 (L’osservatorio)
L’osservatorio, il punto
d’osservazione è quello ma le cose
sono cambiate (peggiorate) «forse osservi
da una diversa prospettiva con avverse
condizioni» anche l’età non è la stessa
«(l’età o l’epoca?) aggiungi l’accentuata
imperfezione della rima» quanta
quanta acqua è passata sotto i ponti
di questa nostra Roma appena sveglia
«sempre uguale a se stessa» da quassù
da un’altezza che la redime nella prona
misericordia del sole ancora assorta
sonnolenta e distante dalla trama
defoliata dei rami da vertigine di curve
e discariche appare (l’uomo curvo
sulla rampa a restringere foglie ad ammassarle
per il fuoco non vede non si accorge
di quest’ora e questa brama, consueta
visione dei giorni) come i sempre-
verdi ancora a corona dell’oro gli alti
pini (oh svettanti) nel mattino di gennaio –
chi ritorna sulla soglia dei quaranta-
cinque anni a discendere dolente, con la mente
formulante congetture di un estremo
nuovo inizio d’amore
«oh ridicole speranze
buone a illudere non necessarie oh vergognose
lagne, l’anima offesa nei suoi muti
giorni piange sventura ah miserella
sognante un corpo e una vita di beata
felicità – quale inizio che sia servo
e padrone di se stesso? quale insonne
verso scritto in corpore vili? una celeste
mattutina salvezza o il lagno muto
sull’aria dell’Ermione: non sperare
sorte amara (ti rivedo, ah ti parlo!) non farti
illusioni»
quei pini assiepati quei frementi
pini appena svegliati dal calore a un distretto
fortilizio rassomiglia nell’azzurra
castità del mattino che lo vede
allontanarsi sospinto da una smania
dolce da un’ansia divenuta impaziente –
e il giorno cresce si fa più caldo
il sole il traffico più intenso l’ora
e l’aria maturano addolcite mentre spira
tra le siepi e i rami spogli della vite
americana dalle curve sulle foglie
tintinnanti e sui volti un leggero
vento, limpido il cielo ma sul cuore
pesa una nube l’ansia dolce diventa
sottile angoscia «mio dèmone domani mi dicevi
sarà il giorno finita la clausura di cercar
ventura, io consumo l’attesa passando
il ponte e tu sei pronto a uccidere l’illusa
speranza un’altra volta senza averne
pietà», negli occhi stupefatti è pura
luce il fiume la città corpo segnato
per secoli paziente si dispone al nuovo
giorno.